CATEGORIE

Di Irene Gironi Carnevale

Ad una prima superficiale visione la notizia sembrerebbe questa come  scrive Repubblica: «A Rio de Janeiro si fa la storia. A scriverla è Abdellatif Baka, algerino classe 1994, atleta ipovedente che corre i 1500 metri di atletica leggera alle Paralimpiadi. Il corridore nordafricano, infatti, ha conquistato l’oro nella distanza, classe T13, con un tempo addirittura migliore di quello fatto realizzare dall’americano Matthew Centrowitz, primo nella stessa specialità, ma ai Giochi disputati in agosto. Baka ha fermato il cronometro in 3’48″29, meno del 3’50″00 con cui vinse l’oro l’atleta a stelle e strisce.»

Sì, avete letto bene, ma questo è uno scoop solo per chi ha nella testa una rigida e inamovibile visione del mondo divisa in categorie ed è quell’ “addirittura” che fa la differenza. Nella realtà universale il giovane Baka è solo un ragazzo di 22 anni che si allena da anni per raggiungere l’obiettivo più alto che uno sportivo può sognare: andare alle Olimpiadi. E questo è un sogno legittimo per chiunque, talmente legittimo da perdersi nella moltitudine di sogni uguali e diversi per gli atleti di tutto il globo. Invece la notizia si gonfia a dismisura alimentata dalla “diversità”, quella diversità che oggi viene vista come una marcia in più, segnalando con stupore come un ragazzo che non ha una vista perfetta e dunque iscritto nella categoria dei “disabili” abbia potuto non dico eguagliare, ma addirittura superare il tempo dell’atleta iscritto nella categoria “normali”. E per giunta in una Olimpiade di serie B, perché diciamo la verità, per la maggior parte delle persone cosiddette “normali” le Paralimpiadi sono un contentino da dare agli sciancati, ai cecati,  a quelli che “non sono normali”, ma mica si seguono come quelle “vere”.

Punto primo: si chiamano Paralimpiadi non perché siano le Olimpiadi dei Paraplegici, ma perché sono dette “Olimpiadi Parallele” e questa è una colossale ipocrisia perché sarebbero parallele  se si svolgessero almeno in contemporanea con quelle “normali”. E in ogni caso anche all’interno delle Paralimpiadi esistono discrepanze e situazioni oggettivamente imbarazzanti. Una per tutte: gli Stati Uniti investono per gli atleti paralimpici solo sui veterani e sui reduci, mentre i disabili generici, “civili” per intenderci, non vengono sostenuti e incentivati nello stesso modo. Questo spiega, ad esempio, perché nel nuoto “normale” gli USA hanno uno squadrone imbattibile mentre alle Paralimpiadi sono scarsi.

In secondo luogo: chi decide cosa è “normale” e cosa è “diverso”? Perché tutta questa necessità compulsiva di categorie a iosa, a vagoni? La popolazione mondiale è composta da persone e dovrebbe essere un ‘entità umana globale, senza razzismi o divisioni di sorta. Che forse un disabile non partecipa alla vita della società? Certo, lo fa come può, esattamente come lo fanno anche tutti gli altri “secondo le proprie possibilità”, ma non è che uno si interroga sul perché il proprio vicino di casa faccia il professore o l’operaio, mentre ci si pone domande sul perché quel ragazzo ha fatto un verso strano o ti ha sfiorato la guancia con una carezza anche se non ti conosce. E le facce terrorizzate dei cosiddetti normodotati nelle sale d’aspetto di un medico, in autobus, in un ufficio, alla visione di un bambino/a/ragazzo/a/uomo/ donna che hanno un comportamento non convenzionale la dice molto lunga su quanta strada ancora bisogna fare per una vera integrazione.

Perché purtroppo la parola chiave è “integrazione” come se una persona diversa non fosse PERSONA  a tutti gli effetti, ma si dovesse INTEGRARE nella società a cui appartiene di diritto. Questa è sicuramente la peggiore forma di razzismo esistente sul pianeta.

 

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