“È QUESTO IL FIORE DEL PARTIGIANO”

di TITTI DE SIMEIS

” È questo il fiore del Partigiano, morto per la libertà “

La libertà restituita, a caro prezzo, ad un Paese affondato da decenni di potere autoritario, dittatoriale, punitivo e violento. Di una violenza che fa male anche se non è fisica perchè invade l’intimo, gambizza i pensieri, li reclude, toglie la facoltà di renderli parola, azione, condivisione, cultura, scambio, crescita e bellezza. E oltraggia la dignità, il rispetto e la libertà, appunto.
La libertà: una condizione naturale. Animale. Istintiva. Indispensabile.
E, dopo decenni di regimi e di conflitti, dopo lo sconquasso umano e la fine di ogni verità, uomini e donne comuni, madri e padri di famiglia, lavoratori, operai ma anche figli della borghesia, si sono ritrovati uniti, compatti e testardi, mossi dall’urgenza di asfissiare quel potere, insano e folle. A qualunque costo, in trincee improvvisate, in notti di gelo e paura, in giorni di afa e fame ma con la mente oltre il confine, le barricate, inseguendo il diritto alla vita. Donne staffette di coraggio, materne compagne e sorelle di piatti caldi improvvisati e sostegno di animi spenti, ragazzi con in mano fucili inconsapevoli di esperienza ma determinati a non crollare. Ogni passo una conquista, ogni conquista una vittoria. Tra le montagne o nelle pianure l’Italia vedeva crescere l’attesa, la fede, l’arrivo della fine di una Storia che i figli di quei figli non avrebbero mai conosciuto. Una Storia da raccontare come ammonimento, come ricordo che insegna a non tornare indietro, a non rifare quel cammino di spavento e ferocia. Verso una promessa da mantenere, conservare, rispettare per sempre. Convinti che quel massacro sarebbe stato sufficiente a difendere la Storia futura dal pericolo di un ritorno.
Con questa certezza hanno messo il Paese nelle nostre mani e son tornati alle loro case. Quanti hanno perso la vita diventando eroi senza medaglia. E quanti sono ancora fra noi. In età con pochi domani ma provati e delusi, non dalla vecchiezza quanto dalla rabbia di rivivere e veder risorgere il buio, nell’inciampo di un solo passo falso: il pretesto di ‘rimettere ordine’, laddove l’ordine ritroverebbe il sapore infame della servitù. Sotto il giogo di un alibi abusato e terribile. Dentro nuovi bavagli. Nuove chiavi. Nuove paure. Quale senso ha avuto, si stanno chiedendo quindi, morire per la libertà? La nostra. Quella dei nostri giorni che guardiamo alternarsi tra primavere azzardate e rivalse d’inverno, incapaci di una coscienza, di un’idea, di un pensiero che sia all’altezza di un valore che abbiamo ricevuto in dono, un’eredità incalcolabile da difendere e custodire, impedendone lo spreco, l’irriverenza, la perdita, la fine. Quell’immenso squarcio di luce riflesso tra i petali di un fiore rosso.

STORIE DI NON SOLO ROCK-WHEN WILL WE EVER LEARN? (QUANDO MAI IMPAREREMO?)

DI CARLO MASETTI

La settimana scorsa mi è capitato di rivedere un film del 2002 sulla guerra del Vietnam: “We were soldiers – Fino all’ultimo uomo”, regia di Randall Wallace, attore protagonista Mel Gibson. È la storia vera della prima grande battaglia campale della fase americana del conflitto e dei soldati che vi parteciparono, nonché delle loro mogli che a casa aspettavano l’arrivo di notizie più o meno buone. In particolare lo scontro tra un battaglione della cavalleria dell’esercito statunitense (circa 450 uomini) e un contingente dell’esercito regolare nord-vietnamita (circa 2000 uomini) si svolse nel novembre 1965 nella valle di Ia Drang, negli altopiani centrali: viene considerato l’episodio che cambiò il corso della guerra stessa (fu la prima volta che i soldati USA vennero aviotrasportati nella zona con elicotteri d’attacco).

Questa battaglia mi ha sempre interessato perché in quel periodo vivevo con la mia famiglia a Washington e, ovviamente, l’eco di quell’avvenimento ebbe risalto su tutti i media, TV in primis. Forse allora non ero molto cosciente di ciò che succedeva in quella parte di mondo, a scuola se ne parlava poco, forse per i miei compagni l’unica preoccupazione emergente riguardava la possibilità di ricevere la cartolina di chiamata alle armi (Uncle Sam’s draft card) alla fine del liceo. Ma questo appariva ancora come qualcosa di là da venire.

Avevo anche letto, negli anni ’90, il libro “We were soldiers once… and young”, scritto dal Comandante di quel battaglione americano, l’allora Colonnello Harold Moore, e ritengo che il film sia piuttosto realistico su come si svolsero i fatti. Durante quell’episodio specifico morirono più di 300 soldati americani e circa 1500 soldati nordvietnamiti, questi ultimi a seguito della reazione del contingente intrappolato in una zona circoscritta, ma anche dell’intervento dell’aviazione USA (i nordvietnamiti, a detta degli stessi americani, si comportarono davvero valorosamente, mostrando per la prima volta in campo aperto, e non solo nella guerriglia, di essere un osso molto duro da sconfiggere).

Si sente dire spesso che la guerra è una sporca faccenda e leggendo libri o guardando reportage e film non si può evitare di commentare l’assurdità e l’insensatezza delle azioni umane: ancora oggi si assiste ad atrocità verso popolazioni indifese e terribili episodi sanguinosi per conquistare altri territori in nome di un’incomprensibile logica. La sete di potere non ha limiti!

Caso ha poi voluto che domenica scorsa la mia cara amica Elisa Romano mi abbia chiesto di preparare una piccola antologia di brani contro la guerra del Vietnam e quindi il ragionamento si è allargato anche al campo musicale.

Il periodo di contestazione di questo conflitto da parte dell’opinione pubblica americana, soprattutto giovani, iniziò da subito, diciamo da quando nel 1963 l’allora Presidente John Kennedy rafforzò la presenza militare statunitense in quel lontano paese. La protesta musicale andò di pari passo e continuò praticamente fino alla fine della guerra nel 1975.

Riporto di seguito un elenco di canzoni che affrontarono il tema della protesta da diversi punti di vista:

1. Bob Dylan – Masters of war (1963)

2. Phil Ochs – Vietnam Talking Blues (1964)

3. Tom Paxton – Lyndon Johnson told the Nation (1965)

4. J. B. Lenoir – Vietnam blues (1965)

5. Malvina Reynolds – Napalm (1965)

6. Pete Seeger – Bring them home (1966)

7. Junior Wells – Vietcong blues (1966)

8. Buffalo Springfield – For what it’s worth (1967)

9. Country Joe and The Fish – The I-feel-like-I’m-fixin’-to die rag (1967)

10. Joan Baez – Saigon bride (1967)

11. Musical “Hair” – Aquarius/Let the sunshine in (1967)

12. (Gianni Morandi – C’era un ragazzo che come me… (1967) in Italia)

13. John Lee Hooker – I don’t wanna go to Vietnam (1968)

14. Doors – The unknown soldier (1968)

15. Byrds – Draft morning (1968)

16. Jimi Hendrix – Star spangled banner (1968)

17. CSN – Wooden ships (1969)

18. Creedence Clearwater Revival – Fortunate son (1969)

19. Steppenwolf – Draft resister (1969)

20. Edwin Starr – War (1969)

21. CSN & Y – Ohio (1970)

22. Steve Goodman – Ballad of Penny Evans (1971)

23. Grand Funk Railroad – People, let’s stop the war (1971)

… e anni dopo la fine della guerra:

24. Billy Joel – Goodnight Saigon (1983)

25. Bruce Springsteen – Born in the USA (1984)

A questo elenco se ne potrebbe forse abbinare un altro di canzoni in generale contro la guerra (Anti-war songs), composto da brani non solo relativi a quella vietnamita, ma anche ad altri conflitti, scritte da musicisti internazionali:

1. Pete Seeger – Where have all the flowers gone? (1962)

2. Bob Dylan – Blowin’ in the wind (1963)

3. Barry McGuire – Eve of destruction (1965)

4. Animals – We gotta get out of this place (1965)

5. Donovan – Universal soldier (1966)

6. John Lennon (& The Plastic Ono Band) – Give peace a chance (1969)

7. Rolling Stones – Give me shelter (1969)

8. Gordon Lightfoot – Sit down young stranger (1970)

9. Cat Stevens – Peace train (1971)

10. John Lennon – Imagine (1971)

I due elenchi potrebbero anche essere più lunghi, ma mi sono voluto fermare con la viva speranza che in futuro diventino invece molto molto più brevi!

Buona domenica a tutti!

PS: per informazione, ricordo che esiste un secondo libro sull’episodio della della battaglia della valle di Ia Drang, “We are soldiers still”, scritto più di 40 anni dopo ancora dal Generale Harold Moore: vi si racconta anche del suo lunghissimo incontro, sempre nella zona della famosa battaglia, con il Generale Nguyen Huu An, Comandante dell’allora contingente nordvietnamita; incontro commovente che terminò con un abbraccio e, mostrando grande rispetto, con lo scambio di elmetti da parte dei due avversari!

Questo secondo libro si conclude con un ultimo capitolo intitolato “APPEAL” (Appello); cito le prime righe di Moore: “We believe that the beginning of an end to war has to lie in HIGHER EDUCATION and, toward that end, we established the Ia Drang Scholarship Fund under the auspices of the 1st Cavalry Division Foundation… (Crediamo che l’inizio della fine della guerra debba risiedere nell’ISTRUZIONE SUPERIORE (leggi CULTURA, ndr) e, con questa finalità, abbiamo creato il Fondo Borse di studio Ia Drang sotto gli auspici della Fondazione Prima Divisione Cavalleria…).

GORBACIOV, IL SORRISO E LA STORIA

DI IRENE GIRONI CARNEVALE

Io Michail Gorbačëv l’ho visto e pure da vicino, come si vede una rockstar. Ero scesa per andare a fare la spesa quella mattina del 29 novembre 1989, 20 giorni dopo il crollo del muro di Berlino, e trovai un assembramento curioso davanti al mio portone. Chiesi ad una ragazza cosa succedesse.

“Gorbačëv va dal Papa e passa qui davanti” mi rispose.

“Ah, allora non ce lo perdiamo!” risposi entusiasta.

Scherzando tra noi aguzzavamo la vista verso Largo Trionfale in attesa di vedere il lungo corteo di macchine.

“Eccolo!” dicemmo, vedendo sfilare auto superblindate con aggrappati fuori dal finestrino agenti armati di fucili di precisione.

Poi ci fu un attimo di confusione, il corteo si fermò di botto, alcuni agenti con aria allarmata scesero di corsa. Noi guardammo di nuovo verso Largo Trionfale e assistemmo ad una scena fantastica: l’auto di Gorbačëv si era fermata poco dopo il semaforo e lui era sceso a stringere mani e salutare le persone che facevano ala al suo passaggio. Riconobbi, tra gli altri, Gianni, il marito della mia fruttivendola di fiducia Rossana, che lavorava al banco di polli al Mercato Trionfale, che stringeva la mano al Presidente; abbiamo rievocato l’episodio per anni.

Dopo qualche minuto di bagno di folla, lui è risalito in macchina e lo abbiamo visto passare, ancora sorridente al fianco della bella ed elegante Raissa, diretti in Vaticano.

E’ stato un bel momento, un piccolo frammento di Storia, quella vera che resta e non si studia mai abbastanza, inciso nella mia mente e nel mio cuore. E’ quel sorriso aperto e molto mediterraneo che ho ricordato nella giornata di oggi, da quando ho saputo che se ne è andato in un silenzio ingiusto in quella patria che amava e che non è riuscito a cambiare e a salvare.

ERA?

di TITTI DE SIMEIS

Era il 1945. Era passato, il verbo e la storia. Era un tempo al futuro, all’infinito dopo tanta follia, da non rivivere mai più. Era giusto, era vero. Era una promessa da mantenere. Erano folle di piazze, ritorni a casa, toppe da ricucire, insonnia, memorie e infamie da smantellare, paure e magrezze dell’anima. Era il freddo di case perdute, radici irriconoscibili senza più vita, sdentate sulla soglia del disincanto. Ma erano anche i giorni a venire, faticosi di sgomitate, tra macerie irrisolte e nuovi colori, tra libertà incredule e spazi senza più cancelli. Era domani, ancora confuso di gioia a singhiozzi e languori da sfamare. Erano mani senza più fede e spose da riabbracciare. Erano libri da scrivere, da scavare nelle strade sepolte e riportare tra le dita, segnare col rosso per farne vessilli. Era la vita che rientrava da ogni prigione, da tutte le brutte canzoni stonate e stridenti, con la voglia indecente di un ballo ad occhi chiusi. Era il bisogno di dimenticare e stringersi, con l’amore tra i pensieri a ridare un senso ad ogni senso. Era il dopo che svegliava l’apatia e assopiva il dolore, era riconoscersi a mani strette e molliche nuove da infornare. Era il pane, di nuovo. Era tutto, e di nuovo possibile. Era tutto finito. E incredibile. Come oggi. Incredibile che possa tornare. Che l’aria riprenda a tirare su cattive strade e riporti a ricordare, rimpiangere, soffocare di nostalgia e crampi di rabbia, in boati di neve e impronte di respiri spenti, su treni senza meta, corse senza biglietti e nuove attese, favole per i più piccoli tra zucchero e ninne, terre di abbandoni e vite svendute alla conquista di una ragione sterile e senza vittoria. Il diritto che affossa i diritti, il potere che accende il buio, l’ignoranza che diventa maestra saccente e stupida ancella di menti in pericolo, pronte a farsi, ancora e ancora, miccia dell’incoscienza.

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E’ DIFFICILE IL PERDONO

di MASSIMO WERTMULLER

Sto vedendo servizi e contributi sulla Shoah. Come sempre, anzi la faccenda peggiora, piango davanti a quelle immagini e mi domando per tutto il tempo perché, come può essere stato possibile. Poi tutto nato dalla Germania, terra di filosofi, di Beethoven, dello sturm und drang … Lo so, lo facciamo tutti, di soffrire, ma evidentemente non basta, e non è vero che lo facciamo tutti. Perché altrimenti non esisterebbero, ancora oggi, i nostalgici del fascismo, una pagina della nostra storia tra l’altro perdente, svilente, dato che Mussolini volle allearsi con un pazzo sanguinario per fare una guerra, oltretutto evitabile, che l’Italia pure perse, tra dolori, sangue, sacrifici, sconfitte, beffe, che ancora ne paghiamo il prezzo. Una pagina in cui, per compiacere il feroce alleato, il duce promulgò le sue leggi razziali. Noi non ricordiamo quell’orrore della Shoah tutti allo stesso modo, evidentemente, se ci sono i nuovi razzisti, oppure se esistono i nuovi populisti e i nuovi nazionalisti intolleranti, oppure se esiste addirittura chi nega l’esistenza della Shoah, considerandola una truffa… ma che proclama in questo modo semplicemente la sua profonda ignoranza, il suo inaccettabile menefreghismo, la sua inumana insensibilità. Perché ancora oggi non si riesce a sostenere lo sguardo di una di quelle vittime, anche al di là di uno schermo e del tempo, magari poco prima di essere ammazzato. Tutti quegli occhi vuoti, che il dolore profondo ha scavato dopo il terrore, quelle madri uccise col piccolo in braccio, con la sola colpa di essere nati, come dice la senatrice Liliana Segre, rendono difficile un perdono. Quegli occhi, che sembrano proprio tutti di quel Cristo che gli ebrei sono accusati di avere ucciso, a torto perché semmai le colpe maggiori della sua morte furono del Sinedrio e dei Romani, vogliono rappresentare invece “la scelta” che sempre abbiamo tra il bene e il male. Proprio come fece Cristo. Siamo dotati da sempre e per sempre del libero arbitrio. Per questo un criminale dovrebbe sempre risultare condannabile. Invece oggi c’è chi ne subisce pure un certo fascino. Certo Dio, lì nei campi di sterminio, non ci fece una bella figura. E a vedere le fosse comuni con quelle persone senza vita che vengono mosse come fantocci, si pensa pure che non possa esistere un “al di là”. Ma neanche le anime, i fantasmi, se è per questo. Troppo facile, e troppo normale è stato quell’orrore feroce, improvviso e ingiusto per quelle povere creature. E se pure ci sono state anime, che sono state vive e pulsanti, poi sono finite in quel fumo dei camini dei forni crematori, prima di svanire nel nulla. E mentre oggi un partecipante di un quiz non sa chi sia Alda Merini, oppure c’è chi paragona i no-vax a quelle vittime con una superficialità sconcertante, che il Dio del buonsenso, del rispetto e dell’intelligenza li perdoni, l’ignoranza allora si manifesta come il più forte alleato della ferocia, della follia, dell’orrore. Speriamo che io mi sbagli, lo spero con tutto il cuore, pensa che bello se “di là” incontrerò mamma, papà, le persone e gli animali che ho amato, ma intanto, nel dubbio, l’unica cosa vera che possiamo fare per onorare sia le anime che la memoria di quelle persone è ricordare… noi, tutti, secondo me, abbiamo il dovere di RICORDARE. Altrimenti la ferocia vana e inutile fa parte della natura umana, e prima o poi può riuscire fuori dalle sue cellule. A me basta poi un cane ammazzato per gioco, oppure le file di animali senzienti in attesa della morte atroce, disperati e terrorizzati, per un menù, per una ricerca fallace o per un presunto “sport”, per poter parlare di eccidio. Io credo che la pagina della Shoah sia la più commovente, la più straziante, la più infamante pagina della storia dell’umanità, assieme a quella degli Atzechi e della schiavitù dei nativi africani, ma penso che, soprattutto in questo mondo da ricostruire temo non solo da oggi, ci sia qualcuno che non è d’accordo, o che almeno non conosca, non voglia conoscere, bene a fondo la questione …

© Massimo Wertmuller

LE DONNE DELLA RESISTENZA

di ADRIANA SCANFERLA

Giacomo Ulivi, martire della Resistenza, scriveva in una lettera prima di morire “ Tutto ciò che noi viviamo oggi succede perché quando potevamo decidere abbiamo delegato ad un solo uomo di decidere per tutti”. In politica non bisogna mai delegare senza controllare; ognuno di noi ha il dovere di vigilare sulla libertà, perché quando la politica non è al servizio dell’uomo, tende a servirsene. L’astensionismo al voto, significa la perdita delle speranze al cambiamento.

Troppo spesso, specialmente tra le giovani generazioni, la mancanza d’impegno politico è dovuta all’evasione ed all’indifferenza. Questi giovani, essendo nati in un periodo di libertà, danno per scontato che sarà sempre così, ma la democrazia è una pianta che va coltivata giorno per giorno.

Ecco perché è importante non perdere la memoria del passato, ed avere il coraggio di assumersi le proprie responsabilità di popolo che ha aderito sì al fascismo, promulgando anche leggi razziali antisemite, ma che ha saputo riscattarsi nella lotta di Liberazione e promuovere una Costituzione dove i diritti umani e civili delle persone sono tutelati.

La Resistenza ha avuto un grande ruolo nel valore di fondazione della nazione, ma anche nel creare la cittadinanza femminile. Le donne hanno dato un grande contributo alla lotta di liberazione, su un totale di 200.000 partigiani combattenti ben 35.000 erano donne e a queste, vanno aggiunte le numerose staffette che facevano circolare tra i partigiani armi, stampe, direttive di partito; molte altre nascondevano nelle case antifascisti e partigiani ricercati, mettendo così a repentaglio la loro vita e quella dei propri cari.

Difficile fu la scelta, di rottura per molte, lasciare la famiglia d’origine e prendere le armi, confrontarsi con la violenza; difficile per queste donne anche il ritorno alla normalità, alcune sono rientrate in famiglia adattandosi ad un ruolo, dati i tempi, inevitabilmente subalterno, altre hanno continuato a fare politica, realizzando così i sogni delle donne emancipazioniste dell’800.

Molte altre donne, durante la guerra, avevano preso nelle fabbriche il posto degli uomini al fronte, conquistandosi così un’autonomia che non avrebbero mai più lasciata.

Molto tempo è passato da allora ed alle giovani ragazze diventa difficile credere che fino al 1946 non avevamo nemmeno il diritto di andare a votare. Fare memoria e tramandarla è importante; dobbiamo finalmente e con forza, riconoscere di dovere alla tenacia delle femministe emancipazioniste e al coraggio delle numerose donne partigiane che hanno combattuto nella Resistenza, se noi donne d’oggi, possiamo pretendere di godere appieno del nostro diritto di cittadinanza.

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