Autonomia, autonomie e riforme costituzionali: ce n’è davvero bisogno?

Intervista al Professor Antonmichele de Tura

a cura di Antonella Soddu

Dopo la recente approvazione del DDL sull’attuazione dell’ Autonomia differenziata da parte dell’ Assemblea del Senato, il dibattito politico e pubblico sembra essersi intensificato anche se, occorre sottolinearlo, la maggior parte dei cittadini continua a ignorare e/o a non comprendere di cosa effettivamente si tratti e, a onor del vero, la poca chiarezza non sembra possa essa esser dissipata con il contributo degli esponenti dei partiti politici che guidano la maggioranza stessa di Governo, e quelli dei partiti di opposizione. L’Autonomia differenziata è una forma di regionalismo che prevede che alcune regioni abbiano maggiori poteri rispetto ad altre, in base alle richieste e all’accettazione da parte dello Stato centrale. In pratica, alcune regioni potrebbero avere maggiori competenze e autonomia decisionale rispetto ad altre, nella gestione di determinati settori o materie. Questa forma di regionalismo, introdotta con la riforma costituzionale del 2001, ha l’obiettivo di adattare l’organizzazione dello Stato alle specificità e alle esigenze delle diverse regioni italiane. Tuttavia, l’Autonomia differenziata è stata oggetto di dibattito politico e suscita ancora oggi opinioni discordanti. Ciò detto, un dato di fatto che non può esser tenuto lontano dal dibattito politico e pubblico. Riguarda il fatto che la riforma del Titolo V della Costituzione, che riguarda la disciplina delle autonomie locali, è entrata in vigore l’8 novembre 2001, dopo un lungo iter normativo iniziato con il 49esimo esecutivo della Repubblica a maggioranza centro sinistra. A maggio ci furono le elezioni che vinse il centro destra e si arrivò al 50esimo esecutivo della Repubblica con Berlusconi Presidente del Consiglio. Il Senato, l’ 8 marzo 2001, approvò la Legge Costituzionale n. 3/2001 con una maggioranza inferiore a quella richiesta (maggioranza qualificata dei due terzi dei membri delle Camere). A causa di questa maggioranza ridotta, la legge è stata sottoposta a un referendum confermativo il 7 ottobre 2001, che ha dato esito favorevole all’approvazione della legge (il 64% dei votanti si è espresso per il sì). La legge è poi entrata in vigore il mese successivo. Per approfondire il tema abbiamo intervistato il Professor Avv. Antonmichele de Tura, che è stato Consigliere Caposervizio alla Corte Costituzionale, Consigliere Giuridico e Capo Ufficio legislativo diversi Ministri nelle passate legislature. Domande a cui speriamo di aver delle risposte che possano aiutare a comprendere quale potrà esser la portata di un cambiamento in tal senso anche in considerazione del fatto che l’attuale dibattito pubblico non si presenta molto trasparente.

Professore, cosa significa “Autonomia Regionale differenziata” ed in particolare di cosa si tratta quando parliamo di autonomia, c’è o no differenza nell’attuale concetto di autonomia che vede le Regioni – poche in Italia, tra cui la Sardegna – a Statuto autonomo, e le Regioni a Stato ordinario.

Grazie per la domanda a cui spero di fornire una risposta esaustiva cercando di non dilungarmi troppo in dettagli tecnici che annoierebbero gli ascoltatori, ma cercando di fare un po’ di chiarezza in una materia che è abbastanza ingarbugliata. In realtà, la storia del regionalismo italiano viene molto da lontano. Dobbiamo tornare indietro e andare in assemblea costituente – tra il ‘47 e il 48 – perché, è in quel periodo storico che il problema delle autonomie venne sollevato dai Costituenti più sensibili. Uno per tutti – un sardo importantissimo e spesso non ricordato come merita – Emilio Lussu. Figura particolarissima perché, pur legatissimo all’Italia e al patriottismo nazionale, decorato nella prima guerra mondiale, fu fieramente antifascista, e dal fascismo fu perseguitato. In lui, accanto al suo forte sentimento nazionale, era presente un fortissimo sentimento di appartenenza alla Sardegna e in assemblea costituente cercò di sviluppare in profondità il discorso dell’autonomia. Premesso questo riferimento, possiamo dire che si arrivò a una Costituzione regionalista perché c’erano anche delle importanti motivazioni politiche legate a quel contesto storico: infatti, si sarebbe votato nella primavera del 1948 e nessuno dei partiti che facevano parte della Costituente era sicuro di vincere quelle elezioni. Accadde quindi che si decise di introdurre in Costituzione la possibilità dell’ordinamento regionale proprio perché chi avesse perso a livello nazionale potesse in qualche modo rifarsi a livello regionale. Anche questa può essere vista come una motivazione nobile, perché garantiva una maggiore democrazia equilibrando il rapporto politico tra centro e periferia, tra governo centrale e autonomie locali. A ciò possiamo aggiungere che, fin da allora, si poté assistere a quella sorta di “gioco delle parti” che ha caratterizzato le posizioni delle forze politiche nel corso degli anni in relazione al regionalismo. Mi spiego: in Assemblea Costituente, fu soprattutto la Democrazia Cristiana di Don Sturzo a spingere per il regionalismo, probabilmente pensando che le elezioni del 1948 sarebbero andate male per la DC. Avvenne l’esatto contrario e, nei due decenni successivi, la DC ritardò costantemente e sistematicamente l’attuazione concreta dell’ordinamento regionale (praticando quello che Calamandrei definì come “ostruzionismo di maggioranza”), che venne poi (peraltro solo in parte) realizzato nel 1970. Sino ad allora, le uniche Regioni che avevano un ordinamento autonomo erano proprio la Sardegna, la (addirittura da tempo risalente a prima dell’entrata in vigore della Costituzione), il Trentino Alto Adige, e la Valle d’Aosta, cui si aggiunse, nel 1963, il Friuli Venezia Giulia. Il testo originario della Costituzione era comunque abbastanza prudente nell’attribuire potestà alle Regioni, tanto è vero che anche dopo il 1970 – anno in cui furono istituiti i Consigli Regionali – parte del disposto dell’ art. 117 – che era la norma che prevedeva tutte le varie competenze regionali – trovò attuazione solo nel 1977 con il dpr n. 616, con il quale vennero definite in concreto le attribuzioni regionali . Per esempio, la Sanità venne concretamente attribuita alle Regioni nel 1977 e perfezionata con la riforma sanitaria del 1978 (legge n. 833). Quindi, che cos’è l’Autonomia differenziata? Vuol dire che il regionalismo in Costituzione si realizza non più come un regionalismo simmetrico, com’è fin ora. Cioè, tutte le Regioni hanno gli stessi poteri. Ma, piuttosto, come un regionalismo asimmetrico. Cioè, alcune Regioni hanno più poteri rispetto alle altre a seconda di come sono chiesti e accolti o meno.

Come ricorda lei ricorda, Prof., materie come la Sanità – di cui già dal 77 furono attribuite competenze alle Regioni – sono motivo di forte preoccupazione anche perché è sotto gli occhi di tutti il disastro con cui tutti i giorni i cittadini sono costretti a fare i conti. Un disastro che abbiamo visto palesemente esplodere in piena emergenza Covid-19 e che, ancora oggi, manifesta gravi problemi. Per esempio, in Sardegna registriamo PS chiusi, ospedali al collasso, assenza di strutture che possano facilitare l’accesso alle cure alle persone più fragile e impossibilitate ad affrontare lunghi viaggi perché, non lo dimentichiamo, la Sardegna presenta un territorio molto dispersivo. Tuttavia – pur con questi gravi problemi – la Sardegna potrebbe richiedere ulteriori materie oltre quelle di cui ha già competenza proprio in virtù della sua condizione di Regione Autonoma, ma in ogni potrebbero emergere disparità con altre Regioni. In questo caso a cosa si andrà incontro?

Sicuramente la differenziazione causerà disparità, mi sembra ovvio. Bisognerà vedere se saranno disparità virtuose oppure no. Il discorso della Sardegna è molto particolare in quanto già dal 1948, come ricordavo prima, ha una sua autonomia. Dunque, ha sempre avuto un trattamento differenziato. Peraltro, non si può dire – anche se non sta a me dirlo in quanto non sono un politico di professione – che la Sardegna abbia dato grandissima prova di efficienza nell’utilizzare i poteri attribuitile dallo Statuto. Con tutta l’autonomia che ha avuto la Sardegna, si sarebbero potute fare cose molto importanti; invece si è preferito fare una navigazione con un cabotaggio un po’ più ridotto, magari premiando a livello politico quello che elettoralmente ripagava di più ma perdendo di vista gli interessi di più lungo termine. Per quanto riguarda la sanità, certamente chi non è più tanto giovane ricorderà che, fino agli anni ’70, c’erano le condotte sanitarie. Come veniva gestita la sanità? Non c’erano le ASL, c’era il medico provinciale che era un’autorità amministrativa, veniva dalla carriera statale e che aveva in materia sanitaria gli stessi poteri che il Prefetto aveva in materia amministrativa. In ogni Comune era presente un medico condotto e – cosa molto importante in una regione come la Sardegna, con una forte vocazione zootecnica – il veterinario condotto. Anche nel Comune più piccolo si aveva quindi la possibilità di avere una figura sanitaria importante che, quantomeno come primo riferimento, assicurava un rapido intervento. Questo rendeva anche meno congestionata la presenza nei pronto soccorso in quanto molte situazioni si risolvevano in ambulatorio. Quindi, la figura del medico condotto era una figura molto importante anche perché la Sardegna, avendo un territorio vasto ma poco popolato, ha necessariamente le strutture ospedaliere molto distanti l’una dall’altra, non ha strade che consentano in tempi brevi collegamenti da un paese all’altro e/o alle maggiori città, ed anche i collegamenti ferroviari non sono ottimali. Per andare ad un estremo all’altro della Sardegna in linea orizzontale, e non sulla direttrice Sassari – Cagliari, i problemi sono noti a tutti. La Sanità sarda andrebbe completamente ridisegnata indipendentemente da forme di autonomia differenziata, ma a Statuto vigente. Gli spazi per ridisegnarla tutta ci sarebbero. E’ solo una questione – come in molti casi – di volontà politica e soprattutto di personalità politiche capaci di attuare determinati programmi.

Riallacciandomi al suo discorso, un recente rapporto SVIMEZ ha messo in evidenza che la spesa pubblica nel Sud Italia è di molto inferiore a quella del resto del Paese, che esiste un forte GAP nei servizi pubblici offerti. Per fare un esempio, nel Sud è alta la percentuale di strutture scolastiche inadeguate rispetto al resto del Paese. Anche il tema dell’istruzione è tra quelli passati alle competenze regionali. La Sardegna peraltro già ha anche competenze in materia di istruzione e purtroppo nel corso degli anni abbiamo assistito e stiamo assistendo a processi di ridimensionamento scolastico. Onestà politica e intellettuale deve farci ammettere che in un certo senso non abbiamo saputo approfittare della nostra condizione di Autonomia. In linea generale a cosa si potrebbe andare incontro se la riforma una volta approvata definitivamente entrerà in vigore senza la definizione dei livelli essenziali di prestazioni …

Intanto i livelli essenziali delle prestazioni – come prevede il disegno di legge – dovrebbero essere determinati prima. Ciò premesso, entrando ora solo per un attimo nei dettagli tecnici, dobbiamo osservare che il disegno di legge sull’autonomia differenziata sta seguendo una procedura – diciamo – anomala, per non dire costituzionalmente non conforme, poiché l’articolo 116 della Costituzione, così come formulato, non prevede una legge generale sulle autonomie differenziate, ma tante leggi quante sono le Regioni che chiedono forme particolari di autonomia. Da questo punto di vista c’è un aspetto formale che potrebbe poi essere significativo dal punto di vista della legittimità costituzionale di questo disegno di legge, e di questo sembra esserne conscio anche il legislatore, che nell’azione di accompagnamento al disegno di legge dice “si la procedura è un po’ atipica – anche perché il disegno di legge è considerato come un provvedimento collegato alla manovra di Bilancio – però è una procedura che già è stata seguita da altri Governi nel recente passato e tutto sommato seguiamo questo iter anche noi”. Per quanto concerne la Sardegna, sappiamo che ci sono stati in passato dei fondi non utilizzati, ed è anche vero che, soprattutto in Sanità, accade un fenomeno “perverso” per il quale ci sono Regioni che spendono molto ma erogano servizi scadenti. Non sempre, infatti, a un maggiore flusso di risorse corrispondono servizi migliori, il che vuol dire che i soldi sono spesi male, o non vengono spesi per niente o il loro utilizzo non è consono al fine per il quale sono destinati. Questo vale anche per altre Regioni, intendiamoci, però c’è un problema strutturale di inadeguatezza della classe politica alla gestione, non dico di particolari forme di autonomia, ma anche di quelle ordinarie. Dunque, servirebbe , molta cautela prima di spalancare praterie a personale politico può non essere perfettamente adeguato ai compiti che gli vengono richiesti.

Riallacciandomi alla sua risposta, in particolare al passaggio in cui esprime qualche dubbio dal punto di vista della legittimità di questo disegno di legge, allora possiamo dire che la volontà di alcuni Presidenti di Regione di procedere poi con un ricorso alla Corte Costituzionale è legittima?

Io sarei molto prudente nel dare questa riforma come già approvata, anche perché a livello della stessa maggioranza ci sono molte perplessità. Si assiste a una continuazione del “gioco delle parti” di cui parlavo prima, per cui sovranisti, federalisti, patrioti e decentratori si scambiano i ruoli in continuazione. La riforma dell’art. 116 – quello che consente l’ autonomia differenziata – è un articolo che è stato fortemente voluto da una maggioranza espressa da quel centro-sinistra che adesso va in aula a sventolare il tricolore. Fa benissimo, certo, però bisognerebbe anche avere la sensibilità di ammettere, forse, determinati errori, cosi come la destra, all’epoca – tra virgolette – nazionale, era fortemente contraria alla riforma del Titolo V e adesso la vediamo insieme alla Lega con il leone di San Marco. Ecco, parlare di ricorso contro un disegno di legge che non è stato neppure approvato, ha esclusivamente una valenza di tipo politico, non essendo possibile da quello giuridico, considerato che solo le leggi statali approvate in via definitiva possono formare oggetto di esame da parte della Corte costituzionale su ricorso delle regioni interessate.

La differenziazione dell’autonomia, dunque, potrebbe portare a disparità tra le diverse regioni o entità territoriali. Tuttavia, l’effetto di questa disparità dipenderà da come verrà gestita e implementata l’autonomia differenziata. Se le differenze territoriali sono utilizzate per promuovere una maggiore efficienza, competitività e sviluppo sostenibile delle regioni, allora potrebbe essere considerata una disparità virtuosa. Al contrario, se l’autonomia differenziata porta a una maggiore concentrazione di risorse e potere in alcune regioni, a discapito dello sviluppo delle altre, allora potrebbe essere considerata una disparità dannosa e ingiusta. Sarà importante valutare attentamente le politiche e le misure adottate in seguito all’autonomia differenziata per determinare se saranno in grado di promuovere un equilibrio e uno sviluppo armonioso tra le diverse regioni. Di Antonella Soddu

Professor Avv. Antonmichele de Tura, che è stato Consigliere Caposervizio alla Corte Costituzionale, Consigliere Giuridico e Capo Ufficio legislativo diversi Ministri nelle passate legislature.

POSSO CANTARE SOLO IN SOLITUDINE

di MARIA TERESA COPPOLA

Posso cantare solo in solitudine.

Nuda, come fanno gli alberi

incontro al gelo.

Solo quando

la mia ombra si fa leggera

e mi lascia alla trama del buio.

Alla vita posso dire che l’ amo

solo se non mi guarda,

se si distrae, se non commenta.

“Sentinella,

a che punto è la notte?”

in cui mi rifugio,

spazio protetto e protettivo,

cura solenne.

In piedi,

ritta finalmente,

a braccia aperte liberare l’anima,

lasciarla splendere

come fuoco di segnalazione.

“Eccomi, eccomi” dire,

salire sulla collina

dove la luna fa incetta

di corbezzoli rossi e li scolora.

Placata, domani,

potrò rimboccare il mattino.

(tratta daC’è di più” – Edizioni Aletti)

STORIE DI SPORT-L’UOMO CHE SEPPE DIRE DI NO AI SOLDI

DI VITTORIO PENTIMALLI

Una storia su Gigi Riva l’avevo già raccontata circa tre anni fa e oggi voglio riproporla (un po’ aggiornata) come mio piccolo contributo di affetto verso questo grande protagonista dello sport italiano.

Ma prima di andare sul racconto non si può non fare una considerazione sull’ondata di commozione che c’è stata alla notizia della sua morte.

Purtroppo solo negli ultimi anni ci hanno lasciato tanti uomini di calcio molto amati, su tutti Pablito Rossi, eterno eroe del Mundial spagnolo dell’82 e Luca Vialli, forse il più carismatico giocatore della generazione a cavallo dei due secoli. Anche per loro c’è stata grande emozione, ma il trasporto per Gigi mi sembra che abbia qualcosa in più, un sentimento di vero cordoglio nazionale.

E dire che Riva aveva smesso di giocare nel 76, quindi poco meno di mezzo secolo fa, e a poter dire che ce lo ricordiamo come giocatore non siamo più in tantissimi.

E allora perché un uomo così schivo, così sempre lontano da qualsiasi ribalta mediatica, ha generato questa commozione così forte?

La risposta è che Giggirriva (alla maniera dei sardi) è stato un simbolo di umanità che va oltre il magnifico campione che è stato.

Lui è stato l’uomo che ha messo l’amore, la lealtà, la riconoscenza, davanti ai soldi. È stato l’uomo che non ha voluto mai sfruttare la sua immensa popolarità per fini commerciali. È stato l’uomo, senza ostentazioni, dalla parte degli umili. Infine, a dispetto della magnifica forza fisica (in un corpo magro, asciutto, meravigliosamente sobrio), era un uomo fragile, da sempre alle prese con una depressione strisciante tenuta a bada in modo altalenante.

E credo che negli ultimi tempi, complice il decadimento fisico, la bestia fosse tornata a mordere con forza e gli avesse tolto la voglia di vivere.

Di lui abbiamo amato l’umanità ancor più della bellezza dello sportivo. Ettore e non Achille, un eroe a cui era impossibile non voler bene.

***

Il racconto di tre anni fa

Rombo di tuono compie 76 anni!

Sembra ieri che, giovane e straripante di potenza fisica, spaccava le reti avversarie a suon di gol.

Campione straordinario e uomo riservato.

Amato e stimato da tutti non solo per come giocava a calcio, ma molto anche per quella discrezione introversa che aveva il sapore di un passato difficile.

Rombo di tuono lo chiamò Gianni Brera, soprannome azzeccatissimo perché rendeva con precisione quel suo modo di giocare fatto di potenza e coraggio. Grande narratore di storie di sport Brera, ma che a me non è mai piaciuto del tutto per una buona dose di cattiveria gratuita verso chi non entrava nelle sue grazie.

Per esempio, Brera fu nemico di Rivera a cui affibbiò l’epiteto di “abatino”, un modo per dargli del debole, fisicamente e moralmente. Veramente una carognata stupida; parliamo del giocatore italiano con più classe e più neuroni (almeno calcistici) della sua epoca.

Riva, Rivera, Mazzola, Facchetti… veramente un’altra epoca di calcio.

Non credo di essere un vecchio nostalgico se dico che mi sembra che quella generazione di giocatori fosse fatta da uomini più veri e di cui era più facile innamorarsi, sportivamente parlando.

D’altra parte attorno al calcio giravano già tanti soldi, ma non le cifre assurde e le pressioni esasperate di oggi che hanno trasformato lo sport in un barnum spesso ridicolo.

Riva nasce nel 44 a Leggiuno, paesino sul Lago Maggiore nella profonda Lombardia del nord.

Il padre fa l’operaio e la mamma sta a casa a crescere Luigi e i suoi fratelli. Poi il padre muore tragicamente in un incidente sul lavoro quando Gigi ha solo nove anni. Tocca alla mamma mandare avanti la famiglia, lavorando in una filanda e facendo le pulizie a casa dei “signori”.

Poi muore anche la mamma, di tumore, e Gigi viene mandato in un collegio religioso, esperienza che lo segna. Racconta della severità al limite della cattiveria, del fatto che gli davano ben poco da mangiare e umiliavano i ragazzi poveri come lui.

Di certo una giovinezza molto difficile.

Il calcio diventa la sua valvola di sfogo e appena può passa ore all’oratorio a giocare. Capisce di essere bravo, più bravo e più forte dei suoi compagni e capisce che il calcio può diventare l’arma di riscatto per una vita già molto complicata.

Presto gioca in serie C, nel Legnano, e lì si mette in mostra a suon di gol.

Ad accorgersi prima degli altri che quel ragazzo taciturno è veramente forte è il Cagliari. Se ne accorge prima delle grandi, la Juve, le milanesi, insomma quelle che monopolizzano la lotta annuale per il titolo.

Così Gigi nel 64 si trasferisce in Sardegna. Accetta solo perché ha voglia di giocare in Serie A ma sull’Isola ci va controvoglia; gli sembra un posto lontanissimo da sé, fisicamente e psicologicamente.

A Cagliari arriva un giovane uomo incazzato con la vita (parole sue) che pensa che quella città e quella squadra siano solo una breve tappa di avvicinamento alla gloria vera, che di sicuro si trova a Torino o Milano.

Non sarà così. Il lombardissimo Riva scopre una terra meravigliosa, l’amore della gente che lo addotta da subito e ne fa uno di loro, e non se ne andrà mai più.

Gigi Riva da Leggiuno piano piano diventa più sardo di un sardo e negli anni rifiuta più volte le offerte di tutte le grandi squadre che a suon di milioni cercano di riportarlo “in continente”.

Ma Gigi ha trovato una terra che lo ha accolto con amore vero e chi se ne frega dei soldi (in più) se c’è quel sentimento che tanto gli è mancato da ragazzo.

Juve & C. si mangeranno le mani per non essersi accorte per tempo di quel ragazzo, lui no, lui ringrazierà la sorte per la distrazione delle presunte grandi che gli ha fatto trovare la terra giusta per la sua vita.

Nel 65, a soli 20 anni, il CT Edmondo Fabbri (quello rimasto famoso in negativo per la disfatta contro la Corea ai mondiali in Inghilterra del 66) lo fa esordire in Nazionale. Dopo quegli sciagurati mondiali Gigi diventerà titolare fisso e inamovibile della Nazionale. Col suo 11 sulle spalle e il suo sinistro alla dinamite.

Ma sono gli anni del Cagliari che prima lotta e poi addirittura vince lo scudetto, nel 69 – 70, quelli che caratterizzano maggiormente la sua carriera. Lui è l’uomo simbolo e il trascinatore di una squadra formidabile che si metterà dietro le grandi. Miracolo di Davide che batte i vari Golia, miracolo che si ripeterà solo molti anni più tardi, nell’85, con l’altrettanto fantastico Verona di Osvaldo Bagnoli.

E vale la pena di raccontare cosa fosse quel Cagliari. C’erano giocatori di grande qualità oltre a Riva; l’altro lombardo umile, Angelo Domenghini, e poi Bobo Boninsegna, Cera, Niccolai, Nenè, e in porta Albertosi.

Ma soprattutto c’era lui, l’allenatore filosofo, Manlio Scopigno.

Taciturno come Riva, disincantato, ironico, fatalista.

L’esatto contrario degli assatanati super motivati che si vantano di pensare calcio 24 ore al giorno (alla Conte, per intenderci).

Scopigno distribuisce a piene mani ironia tagliente verso il mondo in cui vive e lavora. E infatti dopo Cagliari farà pochissimo, quel mondo non gli perdonerà di essere un non allineato ai sacri stereotipi.

Apro brevissima parentesi, mai sentito le dichiarazioni di allenatori e giocatori? Con rarissime eccezioni sono di una banalità sconcertante, dicono tutti sempre le stesse cose, tutti uniti sulla barca di una rassicurante uniformità del nulla.

Scopigno fuma e fa finta di non vedere che i suoi giocatori fumano, fa tardi la sera e non si sogna di controllare la vita privata dei suoi ragazzi. Il gruppo si allena solo al pomeriggio perché la mattina al Cagliari… si dorme.

Il Cagliari Football Club è un’isola di anomalia totale.

Ma vince. Perché il calcio è un gioco molto più semplice di come lo fanno i pseudo santoni (ieri e ancor più oggi) e perché la chimica che si crea in quel gruppo di uomini così particolare funziona perfettamente.

La favola del Cagliari vincente, inevitabilmente, non durerà molto, quel tanto che basta però per restare nel ricordo di tutti come una sorta di felice rivoluzione anarchica nel calcio, e per far venire un po’ di mal di fegato ai dirigenti delle grandi squadre.

Anche la carriera di Riva non durerà molto. Costellata da gravi infortuni, termina nel 76 quando aveva solo 32 anni.

Resta il più forte cannoniere della Nazionale, con 35 gol in 42 presenze e uno dei più forti attaccanti italiani di tutti i tempi con più di 200 gol segnati nel suo Cagliari.

Anche dopo aver abbandonato il calcio giocato il suo carattere non è cambiato.

Ha fatto il Team Manager per la Nazionale e tutti sanno del suo rapporto di autentico affetto con Roberto Baggio. Quando Robi sbagliò il famoso rigore nella finale del mondiale americano contro il Brasile, il primo che lo andò a consolare fu proprio Gigi in un abbraccio pieno di lacrime, stima e solidarietà. Due campioni diversissimi ma straordinari entrambi, due uomini capaci di fare scelte di vita controcorrente e che si sono capiti da subito.

Tutti i giocatori passati dalla Nazionale negli anni di Gigi come Team Manager ricordano la sua capacità di aiutare e rincuorare più con l’affetto dei gesti che con le parole.

A Cagliari ha fondato una scuola calcio per ragazzi e ha continuato a restare lontano dai riflettori, geloso della sua privacy e dei suoi pensieri oscillanti. Uno che non si è mai visto in giro su mega yacht o con starlettine in cerca di visibilità. Riservato come i vecchi lombardi di una volta.

Chissà se di fronte al meraviglioso mare della Sardegna la sua mente corre mai al suo lago?

STORIE DI NON SOLO ROCK-UNA CANZONE PARTICOLARE IL PUPO PRODIGIO

DI CARLO MASETTI

Un paio di settimane fa ho dedicato il mio racconto domenicale al leggendario gruppo musicale dei Led Zeppelin, concludendo il pezzo con la considerazione che, quando i quattro ragazzotti raggiunsero il vertice di creatività (e anche di iniziale popolarità), avevano solo 24-25 anni.

Allora oggi vorrei parlare di un altro “dude” (pischello) che quando ha iniziato a farsi conoscere ad un certo livello nell’ambiente rock britannico di anni ne aveva 14, non ancora 15!

Sto pensando ad un polistrumentista di nome STEPHEN Lawrence WINWOOD, per tutti STEVE (o meglio STEVIE quando appunto è apparso al mondo musicale).

Anche adesso che ha raggiunto la veneranda età di 75 anni, la sua faccia resta sempre quella di un bel bambino, adorato dalle mamme (agli esordi), strasognato dalle adolescenti (pochi anni dopo), tuttora preso in serissima considerazione dalle signore ormai “diversamente giovani”.

Perché stiamo raccontando proprio di lui? E beh perché Steve, nei vari gruppi in cui ha militato, ha prima composto e poi sparato dei missili rock del livello di “Gimme some lovin’” e “I’m a man” (con lo Spencer Davis Group), “Dear Mr. Fantasy” (con i Traffic, primo periodo), “Can’t find my way home” e “Had to cry today” (con i Blind Faith), “John Barleycorn (must die)” (ancora con i Traffic, dopo la reunion).

Il contributo fondamentale del ragazzo consisteva o nel comporre suoi brani, o nell’arrangiarli in modo originale dando sempre un tocco di armonia creativa, o nel cantarli con una voce apparentemente adolescenziale, ma molto intonata (piuttosto da nero), o nel suonarli con vari strumenti (piano, organo, sintetizzatore, moog, chitarra, basso, percussioni…). Un enfant prodige dunque, un bambino prodigio? Eh sì, nel mondo della musica classica credo che lo avrebbero certamente definito così!

La sua particolarità è stata quella di spaziare, con la stessa facilità ed efficacia, dal blues (agli esordi) al soul-R&B (Spencer Davis Group), dal progressive allo psychedelic (Traffic), al blues-rock (Blind Faith), al folk, al jazz… Ogni volta un gran bel successo!

Quando decise poi di iniziare la carriera solista ed andare per la sua strada, il mondo del rock lo conosceva già molto bene: suoi brani come “Roll with it”, “Valerie”, “Higher love” spopolavano nel mondo anglosassone, così come le collaborazioni in studio con artisti di livello mondiale (Jimi Hendrix, George Harrison, John Mayall, David Gilmour, Mike Oldfield, Lou Reed, Tom Petty, Paul Weller, Sandy Denny, Tina Turner…).

Inoltre, non dimenticandosi dei suoi amici (Eric Clapton in primis, ma anche Jim Capaldi, Chris Wood, Al Di Meola), Steve non ha mai disdegnato di andare in tour con loro alzando ancora di più (ammesso che ce ne fosse stato bisogno) il livello del live show offerto.

Vogliamo infine parlare di cover e versioni riarrangiate dei suoi pezzi? non si contano, tutte sempre di gran classe.

A questo punto credo di dover raccontare di una canzone composta da Winwood, e che a me piace tanto, citandone alcuni versi:

“Come down off your throne and leave your body alone

Somebody must change

You are the reason I’ve been waiting all these years

Somebody holds the key

Well, I’m near the end and I just ain’t got the time

And I’m wasted and I can’t find my way home

I can’t find my way home

But I can’t find my way home…

Still I can’t find my way home

And I’ve done nothing wrong

But I can’t find my way home…”

Il testo di “Can’t find my way home” sembra riguardare la riflessione di una persona in piena crisi che ha perso la sua direzione di vita, e non riesce metaforicamente a ritrovare la strada di casa: si sente frustrato, disperato disilluso, si rende conto che qualcosa deve cambiare e di non avere molto tempo, ma non ha la forza di dare una svolta e di riprendersi.

Naturalmente le interpretazioni circa il contesto artistico in cui è nata la canzone sono varie (anche considerando gli attori coinvolti): quella più accreditata è che il brano abbia a che fare con la droga. Nella prima strofa qualcuno (una ragazza?) intende invitare il protagonista a scendere dal suo piedistallo e smetterla di martoriare il proprio corpo, le cose devono cambiare non si può continuare ad autodistruggersi. Dice lei: ho aspettato tanti anni che tu smettessi, ma ora basta. Risponde lui: sono perso, anche se in fondo non ho fatto niente di male (se non a me stesso), ma non ce la faccio a chiudere con questa dipendenza…

L’interpretazione convince considerando che in quel periodo Eric Clapton, Ginger Baker e Rich Grech (e forse anche Steve) non disdegnavano droga, alcol ed eccessi vari!

E quanti sono stati i musicisti che potrebbero immedesimarsi in questa situazione o che sono arrivati al capolinea non riuscendo a fermarsi in tempo in questa folle corsa? Meglio soprassedere per non deprimersi.

Buona Domenica a tutti!

PS1: La canzone in questione ha avuto nel tempo tante versioni (acustica, elettrica, veloce, lenta, ad una voce a più voci, plugged, unplugged…) e altrettante cover (una in particolare molto bella di Joe Cocker che in questo genere di cose era un vero maestro). L’unica forse un po’ fiacca è proprio quella dei Blind Faith durante il celeberrimo concerto del 7 giugno 1969 a Hyde Park a Londra davanti a 120.000 spettatori, ma dicono che nessuno di loro se ne accorse (tale fu il casino durante la performance, anche se Clapton comunque si infuriò a fine show per la mediocre prestazione).

PS2: Non ho volutamente detto niente sull’altro straripante brano “Gimme some lovin’ (every day)” perché quello è passato direttamente alla storia del rock senza bisogno di concerti promozionali (però se questa mattina vorrete ascoltare anche la versione dei Blues Brothers, forse la vostra domenica sarà più luminosa!).

PS3: Anto mi dice che se non metto anche il video di “John Barleycorn (must die)” mi toglie il saluto e smette di leggere le mie bubbole domenicali!

ANTIFASCISMO E MEMORIA

DI IRENE GIRONI CARNEVALE

Per chi non ha chiaro il motivo che spinge molti a chiedere al Presidente del Consiglio e ai suoi ministri, presidenti istituzionali e affini di dichiararsi antifascisti, pensate, proprio oggi, non solo a quella che è stata la costruzione di una “società fascista” in questo Paese, dalle infami leggi razziali alla propaganda allo squadrismo alla delazione, ma anche a tutti i bravi cittadini italiani che hanno denunciato ebrei, omosessuali, oppositori del regime, mandandoli a morte sicura o, nella migliore delle ipotesi, al confino.

E poi pensate invece a tutti quegli italiani, molti dei quali indossavano una divisa, che si sono rifiutati di arrestare e denunciare ebrei, omosessuali, oppositori del regime e tutti quelli messi all’indice dal governo di allora e hanno pagato con la vita questo rifiuto.

Dirsi antifascisti significa avere Memoria complessiva, conoscere la Storia e quale è la parte giusta dove stare. Chi non ha il coraggio di farlo oggi celebra solo parole e slogan, ad uso e consumo della propria misera propaganda, minimizzando il problema e affermando di non avere “nostalgie”.

L’antifascismo è molto di più, ma evidentemente ci sono ancora persone che, nonostante il potere, non se lo possono permettere.

AMO L’ITALIA CHE SA DI PAESE

di MASSIMO WERTMULLER

Scrivo da semplice privato cittadino. Non credevo che si arrivasse a far passare in Senato una legge, che poi è una idea di Italia, come quella dell’autonomia. C’è una cosa che mi unisce alla destra, una, nel mio piccolo, e cioè la bellezza di sentirsi italiano, di essere nato in questo paese meraviglioso. Ma la maleducazione civica, l’ignoranza, il menefreghismo, la furbizia, le mafie lavorano ogni giorno per rovinarlo. Oggi, però, con mia grande e sempre umile sorpresa, vengo a leggere che un partito che ha sempre portato la bandiera d’Italia come vessillo anche della propria politica, che ha fatto del nazionalismo un proprio elemento identificativo, si allea assieme a chi invece con la bandiera italiana voleva pulirsi il sedere. La stessa forza politica che oggi, per un consenso quindi falso e da quattro soldi, grida “prima gli italiani”. Ah sì eh? Far passare una legge che privilegerà i già privilegiati, spezzando in tanti frammenti di piccoli poteri locali, differenti secondo il proprio PIL, l’Italia vuol dire render conto all’Italia e agli italiani? Oppure render conto a una alleanza che ha chiesto prezzi per essere al governo? Come del resto il Ponte sullo stretto, che, come per l’autonomia, non è certo una priorità esistenziale degli italiani, i quali prima di arrivare in Sicilia ci mettono 5-6 ore per arrivare a Taranto, e via terra, quando per arrivare a Milano di ore ce ne vogliono due. Mi piace l’Italia unita proprio nelle sue diversità culturali. E se oggi uno la divide, soffia sul fuoco sempre acceso di divisioni culturali che in questo modo cessano di essere doti e diventano frontiere separatiste. Del resto la Lega ha sempre inseguito la secessione, non l’ha mai abbandonata. E non mi stupisce che la si voti in un certo Nord, ma che la si voti a Roma o a Reggio Calabria. La bellezza dell’Italia a cui mi piace appartenere, sempre nel mio piccolo, è quella che sa di paese, di strade invase dal profumo del pane a legna, degli intonaci che stanno lì dal 1200, delle piazze che diventano vere e proprie agorà. Della nostra fauna, della nostra Natura. Tutte preziosità che al mondo abbiamo solo noi. L’Italia non è mai stata veramente unita, lo è stata solo nel miscuglio di idiomi sulle trincee della prima guerra mondiale. E il sud ha pagato colpe non sue per essere stato sempre lasciato indietro. Non dovrebbe servire una guerra a tenerci uniti e nelle stesse possibilità di crescita, ma semplicemente una politica. Così non mi pare proprio, però, che stiano sulla strada giusta.

© Massimo Wertmuller

LO ‘STATO GENERALE’

di MASSIMO WERTMULLER

Sto pensando che c’è tanto da lavorare nel proprio piccolo per ricostruire questo mondo. Per me, gli orrendi femminicidi, le bombe che continuano a cadere in qualche parte, i bambini che muoiono sotto di esse, le braccia tese, certamente non valgono pandori o rave party, ma valgono senz’altro come un cane bruciato vivo in piazza, oltretutto da parte di chi se ne occupava e godeva della sua fiducia, in termini di gravità. Non si può stare qui a dire quanto sia bastardo e vigliacco quel rifiuto umano che ha ammazzato Aron, si tratta però di capire cosa vogliamo fare. Intanto come ti giri trovi brutte notizie che riguardano quelle creature innocenti, come quella del mancato permesso concesso all’orsa del Trentino JJ4 di essere portata in un rifugio della LAV, cioè una specie di rappresaglia fatta dal governatore Fugatti, insomma, forse in cerca di una vendetta che cuoce contro un’orsa. Contro un’orsa eh! Noi, nel nostro piccolo, perchè non credo che muoviamo montagne, noi, cioè io, Alessandra Ruffini e Elisa Di Eusanio abbiamo messo su un soggetto civico che si è chiamato ‘STATO GENERALE’ con l’intento di fare qualcosa per i diritti degli animali inserendoli in un contesto più ampio di regressione etica , culturale e spirituale. E’ andata bene, certamente. Ma poteva andare meglio. E allora? Non è certo dovuta una partecipazione e tantomeno è obbligatoria, per carità, però se vogliamo almeno pungolare una politica disattenta, se non quando complice coi suoi silenzi e le sue lobby, sta purtroppo solo alla gente farsi sentire. Perchè non se ne può davvero più …

© Massimo Wertmuller

GIGI RIVA IL MIO EROE

DI IRENE GIRONI CARNEVALE

Ho scritto questo 9 anni fa e lo confermo: Gigi Riva è stato un grandissimo Campione e un Uomo raro

GIGI RIVA IL MIO EROE

Brecht diceva: “Sventurato quel popolo che ha bisogno di eroi”. Io, invece, penso che ciascuno di noi ne abbia bisogno per il proprio percorso di formazione. E’ una cosa naturale, una sorta di automatismo emotivo che ti fa alzare lo sguardo della mente su qualcuno che ti ispira, al quale vorresti somigliare o anche soltanto che con le sue gesta riempie la tua vita e i tuoi sogni. In fondo i sogni vanno alimentati per essere tali e dunque ben vengano gli eroi.

Il primo eroe della mia vita è stato il Maestro Alberto Manzi perché attraverso le sue lezioni pomeridiane per adulti ha insegnato a me, bambina di 5 anni, a leggere e scrivere anzitempo. Ma la dimensione eroica del Maestro Manzi l’ho scoperta solo a posteriori, quando ho cominciato a fare i conti con la mia vita e con le persone che avevano avuto un peso determinante su di essa. Il mio Eroe a tutti gli effetti è ed è sempre stato Gigi Riva. La genesi della sua dimensione eroica è stata articolata ed ha costituito un percorso che oggi, a 60 anni, quando solo 11 mi separano dalla sua età, (differenza che sembrava insormontabile quando ero una ragazzina) mi appare chiaro.

Il calcio non è mai stata una mia grande passione anche se, forse per il solo fatto di essere italiana e di avere, mio malgrado, nel DNA la mamma, la pastasciutta e il pallone, ho seguito le vicende calcistiche iniziando con il “secondo tempo di una partita di calcio di serie A” nei pomeriggi della domenica davanti alla televisione sulle ginocchia di mio padre, juventino. Ho apprezzato il bel calcio, mi sono accompagnata nella vita a uomini che, tranne rarissime eccezioni, avevano il pallone nel sangue e poi, dopo i mondiali del 1982 ho deciso che ne avevo abbastanza. Il mondo calcistico stava per essere scosso dai primi scandali, il nome di Paolo Rossi circolava in una modo che non mi piacque e da allora ho staccato la spina e mi sono orientata verso altri sport: l’atletica, il rugby, il nuoto, l’automobilismo. Non senza portarmi cucito nel cuore il nome e l’immagine di uno solo: Gigi Riva.

Lo ammetto, in principio fu la sua bellezza maschia e vagamente tenebrosa. Ero una ragazzina romantica, fu inevitabile. Poi, però, arrivò il suo talento, quel suo modo di giocare e fare gol, mai uguale, mai prevedibile. La costruzione del campione che cercava di mantenere un basso profilo e che si portava dietro i retaggi del passato, le ferite personali fecero di lui ai miei occhi il perfetto eroe dei sogni. Nessun Alain Delon, nessun Paul Newman poteva eguagliare il ragazzo di Leggiuno che scorrazzava sul campo di pallone facendo scomparire qualunque avversario. Poi, il valore aggiunto della sua fedeltà alla maglia, alla città, lui uomo del nord proiettato in una realtà tanto particolare come quella di un’isola tanto diversa dai suoi standard ambientali: niente nebbia, tanto mare, un dialetto che sembrava un’altra lingua, ma anche un amore profondo e incondizionato degli abitanti dell’isola per quest’uomo incredibile. Gigi Riva avrebbe potuto andare dove voleva, chiedere qualunque compenso a chiunque e invece è rimasto a Cagliari, al Cagliari per sempre. La consegna della sua maglia, la numero 11 ritirata per sempre il 9 Febbraio 2005, è stato un momento di grande commozione e io ho pianto come una scema.

Avere come eroe uno come Gigi Riva non ti aiuta con gli uomini, nessuno può raggiungerlo, spesso neanche avvicinarsi pallidamente a lui e chissà se questo sia stato uno dei motivi dei miei disastri sentimentali. Ma non avevo scelta. Era entrato nel mio cuore sentimentale di adolescente ed è rimasto lì, è cresciuto aggiungendo la sua fedeltà di fondo, la sua coerenza, conservando sotto la coltre degli anni lo spessore morale, la forza enorme che si è dovuto creare per affrontare le dure prove della vita, è diventato il modello di un sogno, l’immagine reale di un desiderio, la certezza che al di là della distanza lui esiste e io ho avuto il privilegio di vederlo in azione, sul campo e nella vita. E oggi, giorno del suo 71esimo compleanno desidero augurargli tutto il bene possibile e ringraziarlo per abitare il mio cuore.

PICCOLE STORE DI SPORT-CRONACHE DA MELBOURNE MANNARINO L’ALIENO

DI VITTORIO PENTIMALLI

Adrian Mannarino, francese di chiare origini italiane, 35 anni.

È lui l’eroe della prima settimana degli Australian Open.

Adrian infatti ha vinto le sue tre partite per approdare agli ottavi di finale, sempre dovendo spingersi fino al quinto set, e ha già 12 ore di gioco sul groppone.

Ieri ha fatto fuori Ben Shelton, giovanissimo americano da tutti (me compreso) indicato come uno dei futuri dominatori di questo sport; un ragazzone che è esplosione straripante di forza fisica e aggressività, in perfetto stile yankee.

Ma Adrian ha tessuto la sua tela di ragno anche attorno alla potenza di Ben e si è portato a casa la partita contro ogni pronostico dopo quasi 5 ore di battaglia. Ha detto che era talmente stanco che ad un certo punto per continuare a giocare ha dovuto smettere di pensare per non soffrire troppo.

Veramente un tipo particolare Adrian, del tutto fuori dagli schemi del mondo del tennis.

Pelata perfetta e rada barbetta rossiccia, sembra anche più vecchio della sua età. E soprattutto ha l’aria svagata di uno che capita per caso su un campo di gioco.

In partita non fa pugnetti, non urla “come on”, non cerca sempre il suo angolo con lo sguardo.

Al massimo ride quando fa una delle sue magie.

Ieri, contro Ben, ad un certo punto ha fatto una volée “impossibile”, domando una pallina che arrivava bassa a 200 all’ora e facendola morire pochi centimetri al di là della rete. Qualsiasi altro giocatore avrebbe inscenato una “teatrata” di aggressività dopo un colpo come quello.

Mannarino invece si è voltato prima ancora che la palla toccasse terra nel campo avversario e se n’è tornato sorridendo verso il fondo campo, mentre il pubblico delirava e Ben guardava perplesso chiedendosi come cavolo fosse riuscito il vecchio a inventarsi una genialata come quella.

Con il suo metro e ottanta Adrian è bassino per gli standard odierni del tennis e dalla sua ha senz’altro una gran preparazione fisica e resistenza ma non è certo uno che sprizza potenza.

È l’unico giocatore che non ha abbigliamento sponsorizzato e arriva in campo con brutte magliettine che potrebbero essere comprate in un discount “10 magliette x 2 euro” e braghe sempre troppo larghe.

Anche con le racchette, non arriva come tutti con un borsone con dentro 20 racchette tutte nuovissime; lui ne usa due, modello fuori produzione e corde tese alla ridicola tensione di 12 kg.

Il suo gioco è un distillato di intelligenza tennistica (che secondo me fa spesso rima con intelligenza e basta), tutto basato sul colpire in anticipo (difficilissimo) e togliere il tempo all’avversario, e sulla ricerca di angoli strettissimi che costringono gli avversari a rincorrere la pallina fuori dal campo.

Adrian è un classico incontrista, gesti misurati e grande anticipo per sfruttare la velocità di palla dell’avversario, un’arte molto poco frequentata nel tennis odierno.

Ma per tornare al suo modo di vivere il gioco che è anche una professione, in un mondo in cui tutti dicono di “preparare la partita” con lunghe riunioni tecniche con allenatori, strateghi, psicologi (mancano solo i generali), lui si disinteressa totalmente di chi sarà il suo avversario. Va in campo e gioca il suo tennis, chiunque debba incontrare.

Ed è così che a 35 anni, quando la carriera per quasi tutti ha imboccato la discesa, lui si ritrova con il suo best ranking (19 al mondo, ma salirà ancora dopo questi AO) e numero uno di Francia. Verrebbe da dire numero uno per caso, se non fosse che caso non è, perché Adrian conosce l’arte di colpire una pallina da tennis e mandarla dove vuole lui, meglio di tantissimi celebrati e firmatissimi campioni.

Alla fine del match con Shelton, l’intervistatore gli ha chiesto quale fosse il segreto della sua longevità agonistica, Adrian ci ha pensato un attimo poi ha risposto “la tequila, mi aiuta a rilassarmi”.

Ecco, ho detto tutto.

Per fortuna nello sport c’è ancora qualche alieno non robotizzato.

STORIE DI NON SOLO ROCK-FEELIN’GOOD?

DI CARLO MASETTI

Domenica scorsa sono andato al cinema a vedere il film “Perfect days” di Wim Wenders.

Ero molto curioso perché le critiche parlavano del grande ritorno di questo regista tedesco dopo diversi film di successo, tra cui il suo capolavoro “Il cielo sopra Berlino” del 1987, seguito poi da altri, sì importanti, ma forse non tutti allo stesso livello.

Devo subito dire che a me Wim è sempre piaciuto molto, sin dai tempi dei suoi primi film della “trilogia della strada” (Alice nelle città, Falso movimento, Nel corso del tempo), Paris, Texas, Lisbon Story… credo di non aver perso una sua pellicola.

Considerando poi le parti musicali, mi aveva sempre intrigato il fatto che Wim scegliesse personalmente le colonne sonore delle sue pellicole, preferendo generalmente creare una playlist di brani di successo piuttosto che uno score che accompagnasse le varie scene.

Veniamo al dunque: non starò a raccontare la trama di questo film, preferisco elencare una serie di sensazioni che ho provato durante la visione e successivamente a cose fatte. Forse è sufficiente dire che i Perfect Days, i giorni perfetti, sono quelli di un uomo, apparentemente comune, che di mestiere fa l’addetto alle pulizie di alcuni bagni pubblici della città di Tokyo.

Eccoci allora:

• Il protagonista Hirayama (straordinario l’attore Koji Yakusho, la cui recitazione vale il biglietto e molto, molto di più) fa di tutto per essere un non-protagonista. Parla poco, ascolta molto, non ama apparire, imporsi (tanto meno prevaricare), è giustamente misterioso. La sua storia si intuisce da qualche flash, ma soprattutto dalle sue azioni, dai suoi rituali quotidiani, dalle espressioni del suo volto (preoccupazione, malinconia, gioia, serenità…).

• Le sue giornate, ordinarie, sempre uguali, in realtà non lo sono mai per una serie di piccoli dettagli che le rendono tutte diverse. La normalità, che potrebbe essere immaginata lenta, pesante, noiosa, include invece quiete, sicurezza, intimità, delicatezza.

• In un mondo moderno frenetico, aggressivo, consumistico, Hirayama propone il suo stile di vita, fatto di impegno nell’eseguire al meglio anche le cose più insignificanti, senso di responsabilità nel lavoro (sia pure il più umile), amore e rispetto per la natura, attenzione e gentilezza verso il prossimo.

• Due frasi che Hirayama indirizza alla nipote (scappata di casa e innamorata del suo modo di vivere intimo e meditativo) mi hanno colpito: “Ci sono tanti mondi dentro lo stesso mondo” (e non per forza questi mondi entrano in contatto tra loro) (come a dire che ognuno forse deve trovarsi il suo) e “Un’altra volta è un’altra volta, mentre adesso è adesso” (come a dire che bisogna accettare il presente e di per sé farselo bastare).

• Nonostante i tentativi di isolarsi, ci sono ovviamente altri individui intorno a lui (il giovane assistente e la fidanzata, la donna misteriosa che durante l’intervallo mangia tramezzini nella panchina accanto, il senzatetto che gira per le strade della città, la libraia, la proprietaria del locale dove Hirayama si ferma la sera, l’ex-marito di quest’ultima gravemente malato, l’invisibile giocatore di tris, la sorella benestante, la nipote…). Tra tradizione e modernità, solitudine e spiritualità, sono queste le persone che animano il protagonista e introducono sentimenti diversi che sembrano mettere in crisi la sua solida semplice routine.

E infine (last but not at all least):

• ci sono i libri, che il protagonista compra in una libreria di volumi usati, che continua a leggere tutte le sere e che riempiono la sua piccola casa, e soprattutto

• c’è una strepitosa colonna sonora che rappresenta quasi un personaggio in sé: Yirayama l’ascolta nel suo furgone delle pulizie, utilizzando vecchie audiocassette analogiche con musica rock degli anni ’60-’70 (old fashion, fuori moda, pensano forse i giovani, ma che poi restano meravigliati quando l’ascoltano come fossero pezzi rari!).

Ed ecco allora avvicendarsi Animals (“The house of the rising sun”), Velvet Underground (“Pale blue eyes”), Otis Redding (“Sittin’ on the dock of the Bay”), Patti Smith (“Redondo Beach”), Rolling Stone (“Walkin’ through the sleepy city”), Kinks (“Sunny afternoon”), Van Morrison (“Brown eyed girl”) e naturalmente Lou Reed con il suo magnifico brano “Perfect day”.

Il volto di Hirayama, tra il riso e il pianto, ci lascia con una canzone che non poteva essere scelta meglio: ci pensa infatti Nina Simone con “Feelin’ good” (un ambiguo pezzo soul-blues) che forse riassume tutta la storia.

Il film è molto poco occidentale, invece tanto giapponese (si sente la mano dello sceneggiatore Takuma Takasaki) e conferma quel poco che ho potuto osservare di persona in tre viaggi in quel bellissimo paese: direi un lungometraggio quasi zen. La spiritualità zen è affascinante proprio perché il suo fine ultimo è quello di raggiungere un profondo stato di consapevolezza e quindi la propria pace interiore.

Buona Domenica a tutti!

PS1: ho scoperto che nella capitale giapponese esiste veramente un Progetto intitolato “The Tokyo (Public) Toilet Project” che prevede di costruire/ristrutturare, nel quartiere centrale di Shibuya, 17 bagni pubblici su disegno di altrettanti architetti internazionali. Alcuni di questi locali, bellissimi e neanche a dirlo strapuliti, sono proprio quelli mostrati nel film di Wim Wenders.

PS2: Da quando ho visto questo film, continuo a ripensarci e la cosa… mi affascina e mi preoccupa: è come se stessi facendo una continua analisi del mio vissuto, una specie di bilancio delle piccole cose quotidiane che hanno riempito la mia vita e chissà… mi hanno reso autenticamente felice.