Intervista al Professor Antonmichele de Tura
a cura di Antonella Soddu
Dopo la recente approvazione del DDL sull’attuazione dell’ Autonomia differenziata da parte dell’ Assemblea del Senato, il dibattito politico e pubblico sembra essersi intensificato anche se, occorre sottolinearlo, la maggior parte dei cittadini continua a ignorare e/o a non comprendere di cosa effettivamente si tratti e, a onor del vero, la poca chiarezza non sembra possa essa esser dissipata con il contributo degli esponenti dei partiti politici che guidano la maggioranza stessa di Governo, e quelli dei partiti di opposizione. L’Autonomia differenziata è una forma di regionalismo che prevede che alcune regioni abbiano maggiori poteri rispetto ad altre, in base alle richieste e all’accettazione da parte dello Stato centrale. In pratica, alcune regioni potrebbero avere maggiori competenze e autonomia decisionale rispetto ad altre, nella gestione di determinati settori o materie. Questa forma di regionalismo, introdotta con la riforma costituzionale del 2001, ha l’obiettivo di adattare l’organizzazione dello Stato alle specificità e alle esigenze delle diverse regioni italiane. Tuttavia, l’Autonomia differenziata è stata oggetto di dibattito politico e suscita ancora oggi opinioni discordanti. Ciò detto, un dato di fatto che non può esser tenuto lontano dal dibattito politico e pubblico. Riguarda il fatto che la riforma del Titolo V della Costituzione, che riguarda la disciplina delle autonomie locali, è entrata in vigore l’8 novembre 2001, dopo un lungo iter normativo iniziato con il 49esimo esecutivo della Repubblica a maggioranza centro sinistra. A maggio ci furono le elezioni che vinse il centro destra e si arrivò al 50esimo esecutivo della Repubblica con Berlusconi Presidente del Consiglio. Il Senato, l’ 8 marzo 2001, approvò la Legge Costituzionale n. 3/2001 con una maggioranza inferiore a quella richiesta (maggioranza qualificata dei due terzi dei membri delle Camere). A causa di questa maggioranza ridotta, la legge è stata sottoposta a un referendum confermativo il 7 ottobre 2001, che ha dato esito favorevole all’approvazione della legge (il 64% dei votanti si è espresso per il sì). La legge è poi entrata in vigore il mese successivo. Per approfondire il tema abbiamo intervistato il Professor Avv. Antonmichele de Tura, che è stato Consigliere Caposervizio alla Corte Costituzionale, Consigliere Giuridico e Capo Ufficio legislativo diversi Ministri nelle passate legislature. Domande a cui speriamo di aver delle risposte che possano aiutare a comprendere quale potrà esser la portata di un cambiamento in tal senso anche in considerazione del fatto che l’attuale dibattito pubblico non si presenta molto trasparente.
Professore, cosa significa “Autonomia Regionale differenziata” ed in particolare di cosa si tratta quando parliamo di autonomia, c’è o no differenza nell’attuale concetto di autonomia che vede le Regioni – poche in Italia, tra cui la Sardegna – a Statuto autonomo, e le Regioni a Stato ordinario.
Grazie per la domanda a cui spero di fornire una risposta esaustiva cercando di non dilungarmi troppo in dettagli tecnici che annoierebbero gli ascoltatori, ma cercando di fare un po’ di chiarezza in una materia che è abbastanza ingarbugliata. In realtà, la storia del regionalismo italiano viene molto da lontano. Dobbiamo tornare indietro e andare in assemblea costituente – tra il ‘47 e il 48 – perché, è in quel periodo storico che il problema delle autonomie venne sollevato dai Costituenti più sensibili. Uno per tutti – un sardo importantissimo e spesso non ricordato come merita – Emilio Lussu. Figura particolarissima perché, pur legatissimo all’Italia e al patriottismo nazionale, decorato nella prima guerra mondiale, fu fieramente antifascista, e dal fascismo fu perseguitato. In lui, accanto al suo forte sentimento nazionale, era presente un fortissimo sentimento di appartenenza alla Sardegna e in assemblea costituente cercò di sviluppare in profondità il discorso dell’autonomia. Premesso questo riferimento, possiamo dire che si arrivò a una Costituzione regionalista perché c’erano anche delle importanti motivazioni politiche legate a quel contesto storico: infatti, si sarebbe votato nella primavera del 1948 e nessuno dei partiti che facevano parte della Costituente era sicuro di vincere quelle elezioni. Accadde quindi che si decise di introdurre in Costituzione la possibilità dell’ordinamento regionale proprio perché chi avesse perso a livello nazionale potesse in qualche modo rifarsi a livello regionale. Anche questa può essere vista come una motivazione nobile, perché garantiva una maggiore democrazia equilibrando il rapporto politico tra centro e periferia, tra governo centrale e autonomie locali. A ciò possiamo aggiungere che, fin da allora, si poté assistere a quella sorta di “gioco delle parti” che ha caratterizzato le posizioni delle forze politiche nel corso degli anni in relazione al regionalismo. Mi spiego: in Assemblea Costituente, fu soprattutto la Democrazia Cristiana di Don Sturzo a spingere per il regionalismo, probabilmente pensando che le elezioni del 1948 sarebbero andate male per la DC. Avvenne l’esatto contrario e, nei due decenni successivi, la DC ritardò costantemente e sistematicamente l’attuazione concreta dell’ordinamento regionale (praticando quello che Calamandrei definì come “ostruzionismo di maggioranza”), che venne poi (peraltro solo in parte) realizzato nel 1970. Sino ad allora, le uniche Regioni che avevano un ordinamento autonomo erano proprio la Sardegna, la (addirittura da tempo risalente a prima dell’entrata in vigore della Costituzione), il Trentino Alto Adige, e la Valle d’Aosta, cui si aggiunse, nel 1963, il Friuli Venezia Giulia. Il testo originario della Costituzione era comunque abbastanza prudente nell’attribuire potestà alle Regioni, tanto è vero che anche dopo il 1970 – anno in cui furono istituiti i Consigli Regionali – parte del disposto dell’ art. 117 – che era la norma che prevedeva tutte le varie competenze regionali – trovò attuazione solo nel 1977 con il dpr n. 616, con il quale vennero definite in concreto le attribuzioni regionali . Per esempio, la Sanità venne concretamente attribuita alle Regioni nel 1977 e perfezionata con la riforma sanitaria del 1978 (legge n. 833). Quindi, che cos’è l’Autonomia differenziata? Vuol dire che il regionalismo in Costituzione si realizza non più come un regionalismo simmetrico, com’è fin ora. Cioè, tutte le Regioni hanno gli stessi poteri. Ma, piuttosto, come un regionalismo asimmetrico. Cioè, alcune Regioni hanno più poteri rispetto alle altre a seconda di come sono chiesti e accolti o meno.
Come ricorda lei ricorda, Prof., materie come la Sanità – di cui già dal 77 furono attribuite competenze alle Regioni – sono motivo di forte preoccupazione anche perché è sotto gli occhi di tutti il disastro con cui tutti i giorni i cittadini sono costretti a fare i conti. Un disastro che abbiamo visto palesemente esplodere in piena emergenza Covid-19 e che, ancora oggi, manifesta gravi problemi. Per esempio, in Sardegna registriamo PS chiusi, ospedali al collasso, assenza di strutture che possano facilitare l’accesso alle cure alle persone più fragile e impossibilitate ad affrontare lunghi viaggi perché, non lo dimentichiamo, la Sardegna presenta un territorio molto dispersivo. Tuttavia – pur con questi gravi problemi – la Sardegna potrebbe richiedere ulteriori materie oltre quelle di cui ha già competenza proprio in virtù della sua condizione di Regione Autonoma, ma in ogni potrebbero emergere disparità con altre Regioni. In questo caso a cosa si andrà incontro?
Sicuramente la differenziazione causerà disparità, mi sembra ovvio. Bisognerà vedere se saranno disparità virtuose oppure no. Il discorso della Sardegna è molto particolare in quanto già dal 1948, come ricordavo prima, ha una sua autonomia. Dunque, ha sempre avuto un trattamento differenziato. Peraltro, non si può dire – anche se non sta a me dirlo in quanto non sono un politico di professione – che la Sardegna abbia dato grandissima prova di efficienza nell’utilizzare i poteri attribuitile dallo Statuto. Con tutta l’autonomia che ha avuto la Sardegna, si sarebbero potute fare cose molto importanti; invece si è preferito fare una navigazione con un cabotaggio un po’ più ridotto, magari premiando a livello politico quello che elettoralmente ripagava di più ma perdendo di vista gli interessi di più lungo termine. Per quanto riguarda la sanità, certamente chi non è più tanto giovane ricorderà che, fino agli anni ’70, c’erano le condotte sanitarie. Come veniva gestita la sanità? Non c’erano le ASL, c’era il medico provinciale che era un’autorità amministrativa, veniva dalla carriera statale e che aveva in materia sanitaria gli stessi poteri che il Prefetto aveva in materia amministrativa. In ogni Comune era presente un medico condotto e – cosa molto importante in una regione come la Sardegna, con una forte vocazione zootecnica – il veterinario condotto. Anche nel Comune più piccolo si aveva quindi la possibilità di avere una figura sanitaria importante che, quantomeno come primo riferimento, assicurava un rapido intervento. Questo rendeva anche meno congestionata la presenza nei pronto soccorso in quanto molte situazioni si risolvevano in ambulatorio. Quindi, la figura del medico condotto era una figura molto importante anche perché la Sardegna, avendo un territorio vasto ma poco popolato, ha necessariamente le strutture ospedaliere molto distanti l’una dall’altra, non ha strade che consentano in tempi brevi collegamenti da un paese all’altro e/o alle maggiori città, ed anche i collegamenti ferroviari non sono ottimali. Per andare ad un estremo all’altro della Sardegna in linea orizzontale, e non sulla direttrice Sassari – Cagliari, i problemi sono noti a tutti. La Sanità sarda andrebbe completamente ridisegnata indipendentemente da forme di autonomia differenziata, ma a Statuto vigente. Gli spazi per ridisegnarla tutta ci sarebbero. E’ solo una questione – come in molti casi – di volontà politica e soprattutto di personalità politiche capaci di attuare determinati programmi.
Riallacciandomi al suo discorso, un recente rapporto SVIMEZ ha messo in evidenza che la spesa pubblica nel Sud Italia è di molto inferiore a quella del resto del Paese, che esiste un forte GAP nei servizi pubblici offerti. Per fare un esempio, nel Sud è alta la percentuale di strutture scolastiche inadeguate rispetto al resto del Paese. Anche il tema dell’istruzione è tra quelli passati alle competenze regionali. La Sardegna peraltro già ha anche competenze in materia di istruzione e purtroppo nel corso degli anni abbiamo assistito e stiamo assistendo a processi di ridimensionamento scolastico. Onestà politica e intellettuale deve farci ammettere che in un certo senso non abbiamo saputo approfittare della nostra condizione di Autonomia. In linea generale a cosa si potrebbe andare incontro se la riforma una volta approvata definitivamente entrerà in vigore senza la definizione dei livelli essenziali di prestazioni …
Intanto i livelli essenziali delle prestazioni – come prevede il disegno di legge – dovrebbero essere determinati prima. Ciò premesso, entrando ora solo per un attimo nei dettagli tecnici, dobbiamo osservare che il disegno di legge sull’autonomia differenziata sta seguendo una procedura – diciamo – anomala, per non dire costituzionalmente non conforme, poiché l’articolo 116 della Costituzione, così come formulato, non prevede una legge generale sulle autonomie differenziate, ma tante leggi quante sono le Regioni che chiedono forme particolari di autonomia. Da questo punto di vista c’è un aspetto formale che potrebbe poi essere significativo dal punto di vista della legittimità costituzionale di questo disegno di legge, e di questo sembra esserne conscio anche il legislatore, che nell’azione di accompagnamento al disegno di legge dice “si la procedura è un po’ atipica – anche perché il disegno di legge è considerato come un provvedimento collegato alla manovra di Bilancio – però è una procedura che già è stata seguita da altri Governi nel recente passato e tutto sommato seguiamo questo iter anche noi”. Per quanto concerne la Sardegna, sappiamo che ci sono stati in passato dei fondi non utilizzati, ed è anche vero che, soprattutto in Sanità, accade un fenomeno “perverso” per il quale ci sono Regioni che spendono molto ma erogano servizi scadenti. Non sempre, infatti, a un maggiore flusso di risorse corrispondono servizi migliori, il che vuol dire che i soldi sono spesi male, o non vengono spesi per niente o il loro utilizzo non è consono al fine per il quale sono destinati. Questo vale anche per altre Regioni, intendiamoci, però c’è un problema strutturale di inadeguatezza della classe politica alla gestione, non dico di particolari forme di autonomia, ma anche di quelle ordinarie. Dunque, servirebbe , molta cautela prima di spalancare praterie a personale politico può non essere perfettamente adeguato ai compiti che gli vengono richiesti.
Riallacciandomi alla sua risposta, in particolare al passaggio in cui esprime qualche dubbio dal punto di vista della legittimità di questo disegno di legge, allora possiamo dire che la volontà di alcuni Presidenti di Regione di procedere poi con un ricorso alla Corte Costituzionale è legittima?
Io sarei molto prudente nel dare questa riforma come già approvata, anche perché a livello della stessa maggioranza ci sono molte perplessità. Si assiste a una continuazione del “gioco delle parti” di cui parlavo prima, per cui sovranisti, federalisti, patrioti e decentratori si scambiano i ruoli in continuazione. La riforma dell’art. 116 – quello che consente l’ autonomia differenziata – è un articolo che è stato fortemente voluto da una maggioranza espressa da quel centro-sinistra che adesso va in aula a sventolare il tricolore. Fa benissimo, certo, però bisognerebbe anche avere la sensibilità di ammettere, forse, determinati errori, cosi come la destra, all’epoca – tra virgolette – nazionale, era fortemente contraria alla riforma del Titolo V e adesso la vediamo insieme alla Lega con il leone di San Marco. Ecco, parlare di ricorso contro un disegno di legge che non è stato neppure approvato, ha esclusivamente una valenza di tipo politico, non essendo possibile da quello giuridico, considerato che solo le leggi statali approvate in via definitiva possono formare oggetto di esame da parte della Corte costituzionale su ricorso delle regioni interessate.
La differenziazione dell’autonomia, dunque, potrebbe portare a disparità tra le diverse regioni o entità territoriali. Tuttavia, l’effetto di questa disparità dipenderà da come verrà gestita e implementata l’autonomia differenziata. Se le differenze territoriali sono utilizzate per promuovere una maggiore efficienza, competitività e sviluppo sostenibile delle regioni, allora potrebbe essere considerata una disparità virtuosa. Al contrario, se l’autonomia differenziata porta a una maggiore concentrazione di risorse e potere in alcune regioni, a discapito dello sviluppo delle altre, allora potrebbe essere considerata una disparità dannosa e ingiusta. Sarà importante valutare attentamente le politiche e le misure adottate in seguito all’autonomia differenziata per determinare se saranno in grado di promuovere un equilibrio e uno sviluppo armonioso tra le diverse regioni. Di Antonella Soddu
Professor Avv. Antonmichele de Tura, che è stato Consigliere Caposervizio alla Corte Costituzionale, Consigliere Giuridico e Capo Ufficio legislativo diversi Ministri nelle passate legislature.