CAREGIVER E DISABILITA’, L‘INCAPACITA’ CRONICA DELLA POLITICA

DI IRENE IRONI CARNEVALE

Cambiano i governi, ma non cambia la musica rispetto alla disabilità. Sono venuta a conoscenza di un DDL presentato da alcuni parlamentari in data 13 Ottobre 2022 in materia di caregiver.

Come sappiamo bene, noi che caregiver lo siamo, la disabilità è un tema che viene rispolverato ad ogni tornata elettorale per fare scena: qualche foto con un disabile, possibilmente portentosamente geniale nella sua diversità, magari qualche storia edificante che spazia dal “sacrificio materno” al miracolistico percorso grazie a luminari più o meno popolari, l’istituzione di inutili ministeri, garanti fantasma che non hanno mai risposto a richieste di caregiver e associazioni e DDL deliranti, dove si richiedono doppioni di certificazioni già ottenute attraverso visite spesso mortificanti e dopo ore di attesa in corridoi fatiscenti, senza alcun rispetto per le persone disabili e i loro accompagnatori; oppure elemosine di pochi anni contributivi a chi una pensione non l’ha maturata per assistere il familiare disabile, magari dalla nascita. Potrei stilare lunghi elenchi con nomi, date, legislature, promesse declamate, silenzi eterni, il tutto coadiuvato da un’informazione superficiale e fuorviante che chiede esplicitamente, soprattutto in occasione di giornate dedicate, storie belle e a lieto fine perché “la gente non ha voglia di deprimersi con storie tristi e drammatiche” ( sono parole di un responsabile di trasmissione televisiva).

Il DDL di cui parlo all’inizio di questo pezzo, è l’ultimo in ordine di tempo, l’ennesima bandierina per dire “abbiamo fatto qualcosa che è sempre meglio che niente”, come la legge sull’autismo di Renzi senza fondi, il che ne rende assai complicata l’applicazione soprattutto quando si parla di sostegno alle famiglie, percorsi e terapie, ausili tecnologici, etc.etc.

La lettura di questi provvedimenti dimostra chiaramente come chi si avventura nel meraviglioso mondo della disabilità non lo conosca affatto e non intenda conoscerlo. Perché basterebbe confrontarsi con le associazioni di genitori che in tutta Italia sopperiscono ai vuoti istituzionali e si prodigano per trovare spazi e modalità di intervento dove c’è il nulla. Ma attenzione: non parlo della “grandi associazioni” che hanno un posto fisso ai numerosi tavoli ministeriali e istituzionali e che, per non perdere la preziosa e prestigiosa postazione, il più delle volte tacciono o scendono a compromessi grotteschi, perché mi rifiuto di credere che un interlocutore serio non si accorga delle enormità che vengono proposte e non le faccia presente a chi le ha scritte.

Durante la pandemia che ha segnato i nostri figli disabili, oltre ai nostri disabili anziani spesso segregati senza scampo, sono state proprio le associazioni che non hanno “posti in Paradiso” a battersi per avere il permesso di poter fare uscire i ragazzi con disabilità psichica o cognitiva ai quali era non solo impossibile spiegare e far accettare la situazione emergenziale, ma impedire un minimo di routine fondamentale alla loro sopravvivenza e ad un minimo di equilibrio psichico.

E per fare questo siamo dovute comunque uscire portandoci dietro scartoffie e certificati su certificati da esibire a chi ci fermava, spesso intimandoci di tornare a casa prima di visionare la documentazione.

Sono state le associazioni a convincere le istituzioni cittadine e regionali che un disabile non collaborante, non verbale e ad alto carico assistenziale aveva diritto ad andare in ospedale, per qualunque prestazione, ricovero compreso, con il caregiver per motivi anche di sicurezza personale, e a far raccogliere questo provvedimento anche all’interno di un DPCM del governo.

Sono state le associazioni a mobilitarsi per cercare e trovare farmaci introvabili e salvavita e a distribuirli alle famiglie dei pazienti disabili, dopo che la Protezione Civile aveva risposto che non era loro competenza il reperimento di farmaci.

E sono le associazioni, le famiglie, chi condivide ora per ora una vita complessa, spesso convulsa, scandita da ritmi fuori da ogni schema, attraverso gli anni che passano per tutti, anche per i caregiver che non hanno NULLA, nessuna tutela, nessun piano di cura se si ammalano, nessun sollievo, nessuna possibilità di un sostegno organizzato, con servizi funzionanti e prospettive per il futuro del loro familiare disabile.

E’ sicuramente non casuale che questo nuovo focus sulla disabilità si riaccenda all’indomani della condanna dell’ONU all’Italia per il mancato riconoscimento del caregiver. Ma non saranno quattro articoli grotteschi e insufficienti all’interno di un DDL a cambiare le cose.

Cari signori parlamentari, di qualsiasi partito, movimento, idea politica: la disabilità è un problema di tutti, non ha colore, sesso, ideologia e può toccare chiunque in qualunque momento, sappiatelo.

Perciò, invece di sfornare a scadenze più o meno fisse DDL e provvedimenti impresentabili che testimoniano la vostra cronica insipienza, fatevi un bagno di umiltà e confrontatevi con chi ogni giorno combatte per la dignità propria e delle persone disabili di cui si occupa, il più delle volte rinunciando ad una vita, un lavoro, una pensione, svaghi e rapporti sociali.

Vi garantisco che avreste molto da imparare.

Se copiate e incollate il link nel browser, potete leggere il PDF del DDL

file:///C:/Users/%C3%B9%C3%B9/Desktop/Caregiver%20leg.19.pdl.camera.307.19PDL0005720.pdf

STORIE DI NON SOLO ROCK-DECALOGO N.2

DI CARLO MASETTI

(10 considerazioni sul post di domenica scorsa)

Ricordo che stiamo parlando del sondaggio relativo ai 10 album da portare con sé nella famosa isola semi-deserta (per essere più aggiornati, vedi il Regolamento, cioè il Decalogo n.1, pubblicato appunto domenica scorsa).

Ecco allora alcuni spunti che mi sono sembrati evidenti dai vostri post, commenti, reazioni, elenchi vari, comunicazioni private…

1. DECALOGO? δέκα (dieci) e λόγος (parola, comando), per estensione “insieme di regole e precetti fondamentali”. Sembra che nel nostro mondo ci sia sempre bisogno di regole da seguire, di conseguenti esperienze da fare e di conclusioni da trarre per la vita. È così anche con il nostro sondaggio musicale? (dopo l’accenno al commissario Adamsberg, vi ricordo, en passant, il meraviglioso Decalogo del regista polacco Krzysztof Kieślowski, quello sì un vero capolavoro).

2. CAPO? Vorrei soprattutto ringraziare tutti coloro che hanno partecipato e inviato/pubblicato le loro preferenze. Siete stati tanti, a riprova che l’iniziativa evidentemente è piaciuta. Il Capo? Quella era solo una mia evidente provocazione, non c’è alcun bisogno di un’autorità per portare avanti una divertente indagine come quella che è andata in onda domenica scorsa. E in ogni caso, “It Ain’t Me, Babe”!

3. ISOLA SEMI-DESERTA (1)? Sembrerebbe che, per ciascuno di noi, l’isola semi-deserta non sia in fondo solo una chimera: ho percepito distintamente una voglia di EVASIONE, una smania di voltar pagina, di uscire dalla routine quotidiana, lontani da affanni e preoccupazioni… in un periodo che sicuramente non è dei più facili.

4. RITIRO SPIRITUALE? Se l’isola non è un’idea tanto strampalata, allora è evidente anche un desiderio di SOCIALIZZAZIONE tra tutti coloro che si sono espressi tramite gli album da portare con sé. Quindi se c’era bisogno di una conferma che la musica avvicina, la musica va condivisa, la musica ci far star bene insieme, beh questa voce l’abbiamo sentita forte e chiara. Addirittura si parla di una “comune musicale”! neanche i figli dei fiori erano arrivati a tanto, ahahah!

5. BOTTINO? Personalmente sono stato molto soddisfatto del mix tra gli album considerati “classici del rock” e soprattutto i tanti altri, magari meno noti, ma molto amati dai proponenti. Mi è sembrato un tocco di individualismo che questa volta non mi è per nulla dispiaciuto (ha permesso, tra l’altro, di conoscere i vostri gusti musicali anche dei più diversi).

6. GENERI MUSICALI? Avete spaziato tra tutti i generi musicali possibili (blues, jazz, rock, R&B, soul, classica, world music, colonne sonore, ITALIANA…), a riprova che la musica affascina sempre e comunque, purché sia DI QUALITÀ. Conclusione questa che mi rende davvero felice.

7. 10 ALBUM? Veniamo al piatto forte: 10 album da scegliere nel mare magnum della produzione di artisti/gruppi di tutto il mondo e di tutti i generi sono davvero pochi; ognuno di voi (me compreso) è infatti andato giustamente oltre il limite che era troppo ristretto, e bene abbiamo fatto. Poi ci siamo leggermente allargati, proponendo di arrivare prima a 100 album, poi a 500 e poi ancora a 1000, con la scusa che sull’isola ci saremmo rimasti un bel po’ di tempo. Mi chiedo: ma allora il Capo ha dato un così cattivo esempio? E il Regolamento iniziale, il Decalogo n.1 ce lo siamo proprio dimenticato?

8. CLASSIFICA? Qualcun altro ha avanzato l’idea di stilare una bella classifica. Apprezzo molto il suggerimento, ma tutto mi sentirei di fare tranne che decidere quali sono gli album migliori. Ognuno ha i suoi gusti (e si è visto bene) e le sue emozioni ascoltando un brano musicale (così come per ogni opera d’arte), perciò figuriamoci se possiamo decidere quali sono i più gettonati (lasciamo caso mai che ci pensino le riviste specializzate e le vendite nei negozi).

9. TECNOLOGIA? Nessuno ha manifestato difficoltà tecnologiche nel destreggiarsi tra 78 giri, 45 giri, 33 giri, Long Playing, Compact Disc, Blue Ray, iPod, iPad, playlist di piattaforme online, altre diavolerie varie… Siamo diventati tutti informatici di gran classe? Che meraviglia! Vorrà dire che sull’isola ognuno smanetterà i propri apparecchietti senza dover chiedere assistenza ai super-esperti (comunque non avremmo avuto i soldi per pagare le loro esose consulenze!). L’importante è che gli album possano essere condivisi (quindi forse ci dovremo porre solo il problema dei maledetti accessori, cioè ad esempio gli adattatori più o meno universali).

10. ISOLA SEMI-DESERTA (2)? Nessuno, tranne forse le mie carissime amiche Teresa Dar, Irene Gironi Carnevale, Fiona Gillies, ha avanzato una seria proposta su quale sia l’isola semi-deserta che dovremmo traguardare (e poi come fare a raggiungerla, come organizzare la nostra avventurosa vacanza…): si spazia dal caldo torrido al gelo dell’Antartide, passando per le isole del Mediterraneo. Staremo mica cercando l’isola che non c’è? (Peter Pan ed Edoardo Bennato sicuramente ci stanno ascoltando e forse vorranno dire la loro). Ma in fondo la location non sembra essere poi così importante, l’essenziale è metter insieme un bel gruppo, preparare lo zainetto e partire, giusto?

Buona domenica a tutti!

PS: SINGOLE CANZONI? Diversi amici/amiche hanno sottolineato che piuttosto che scegliere album (di cui difficilmente si conoscono tutti i brani), sarebbe meglio scegliere SINGOLE CANZONI (indipendentemente dal disco in cui sono state inserite). Questa possibilità è considerata molto più realistica: allora oggi sbizzarriamoci con l’elenco dei 10-20-30 brani preferiti (tanto per capirci, quelli che ci fanno battere il cuore e passare tutte le paturnie a primo mattino). Buon lavoro! (io ho fatto la mia parte con un altro post separato).

“ESSERE MADRE COME RITENGO”NON E’PER TUTTE

DI IRENE GIRONI CARNEVALE

Giorgia Meloni rivendica, giustamente, di fare la madre “come ritiene” in relazione all’aver portato la figlia a Bali.

E ci mancherebbe!

Ma quante donne italiane si possono permettere di farlo?

Perciò sotto al suo post sull’argomento, ho scritto questo commento:

Gentile Presidente, il problema non è che lei porti sua figlia a Bali o dove preferisce, ci mancherebbe. La politica è piena di politici maschi a cui nessuno mai ha fatto le pulci su chi si portava appresso nelle missioni o nei viaggi all’estero. Il punto è un altro: in Italia, il suo Paese, quante donne si possono permettere di portare i figli al lavoro? Quanti servizi esistono per permettere alle donne di poter fare ciò che ha fatto lei? Quante hanno la possibilità di usufruire di asili nido aziendali, sostegni, aiuti per poter lavorare serenamente e fare le madri “come ritengono”? Ci sono madri che fanno i salti mortali per conciliare le due cose, madri che rinunciano a lavorare, madri che accettano lavori umilianti, donne a cui ancora viene chiesto durante un colloquio di lavoro”Mica vorrà fare un figlio?” Poi non vi lamentate del calo demografico. Forse Presidente il fatto che lei sia il primo Presidente del Consiglio donna lo si potrebbe riempire di contenuti con provvedimenti che realmente siano di aiuto e sollievo alle madri di questo Paese e non solo come una bandierina da sventolare. Poi, se vuole, le posso parlare delle madri come me (e siamo tante) che sono caregiver di un figlio disabile perché quella è ancora un’altra storia.

STORIE DI NON SOLO ROCK-“IL REGOLAMENTO” (DECALOGO)

DI CARLO MASETTI

Storie di NON SOLO Rock

“IL REGOLAMENTO” (DECALOGO)

1. Il Capo sono io e il Capo ha sempre ragione (conoscete questa musica? me l’ha insegnata, al contrario, “lo spalatore di nuvole”, alias il commissario Adamsberg).

2. 10 album, solo 10, né di più, né di meno (prego notare il tono perentorio e tassativo).

3. L’isola in questione deve essere per forza semi-deserta perché se fosse deserta dopo un po’ vi rompereste le balle anche con i dieci album che avete scelto; se fosse più affollata comincereste a deconcentrarvi con altre distrazioni, e questo non va bene (quindi potete allungare il vostro elenco anche a 15).

4. Per lo strumento di riproduzione degli album sull’isola vi suggeriamo un PC alimentato da un piccolo generatore solare portatile (e allora, già che dovrete sostenere una piccola spesa per partecipare a questo sondaggio, vi autorizzo ad allungare l’elenco a 20).

5. La vostra lista deve essere veramente personale, senza remore, altrimenti che gusto c’è?

6. Per favore, non copiate come i bambini dell’asilo (e anche delle elementari, delle medie e del liceo), tanto vi sgamerei subito!

7. Non accettiamo raccomandazioni, quindi per favore… evitate (però se qualcuno arriva a 25 album, chiuderò un occhio!).

8. Non abbiamo alcun contatto né con l’Isola dei Famosi, né con il Grande Fratello Vip, perciò se quello è il vostro obiettivo… non vi posso aiutare.

9. Pubblicate direttamente la vostra lista: il rischio è che vi influenziate nelle scelte, ma vale quanto detto al numero 5.

10. Siete invitati ovviamente a condividere l’iniziativa.

PS1 (fondamentale): vietato pensare/affermare/scrivere che ho sbracato su tutto la linea, altrimenti ritornerete automaticamente al numero 1 (cadrete cioè in un loop infinito, senza via d’uscita, e non saprete nemmeno come sia successo).

PS2: per chi non avesse seguito la vicenda in precedenza, stiamo parlando dell’elenco dei 10 album da portare con sé in un’isola semi-deserta!

Buona domenica a tutti!

CHRISTIAN SOLINAS, L’INAUGURATORE SERIALE SENZA COSCIENZA

DI LILLI PRUNA

Da quando è – sciaguratamente – presidente della Giunta Regionale della Sardegna, Christian Solinas ha inaugurato qualsiasi cosa, spesso già esistente, e certamente l’episodio più singolare è stato avere presenziato all’inaugurazione di un supermercato (che già esisteva ma ha cambiato proprietà). In sanità ha inaugurato locali ristrutturati – il Centro donna e il Centro di senologia all’ex Ospedale civile, che già esistevano e funzionavano bene al Binaghi – o lo stesso ospedale Binaghi riconvertito a struttura Covid (con il conseguente ridimensionamento e il parziale trasferimento all’ospedale oncologico dei servizi di cura del Centro Sclerosi Multipla, con disagi evidenti per i pazienti e forse anche per il personale sanitario: ma per uno come Solinas questi sono dettagli). Non ha mai visitato un ospedale, un reparto con medici, infermieri e pazienti, ma solo locali ristrutturati, vuoti di persone e di problemi. Nè l’emergenza Covid né le tante segnalazioni e proteste dei territori l’hanno spinto ad andare a vedere da vicino quali problemi e difficoltà affrontano i cittadini per curarsi. L’unica visita che ha fatto in un ospedale è stata al Mater Olbia. Solinas è questo: un inauguratore seriale senza coscienza.

STORIE DI SPORT-IL SARDO DI LEGGIUNO

DI VITTORIO PENTIMALLI

Vedi i casi… quando la settimana scorsa, qui su facebook, ho invitato a giocare su chi fosse stato “il più grande” nel calcio, ho visto arrivare molte preferenze per lui, Gigi Riva, e così ho deciso di dedicargli il mio raccontino domenicale e, manco a farlo apposta, oggi (sabato) scopro che è il suo compleanno.

Rombo di tuono compie 76 anni!

Sembra ieri che, giovane e straripante di potenza fisica, spaccava le reti avversarie a suon di gol.

Campione straordinario e uomo riservato.

Amato e stimato da tutti quelli della mia generazione non solo per come giocava a calcio, ma molto anche per quella discrezione che sapeva di timidezza.

Rombo di tuono lo chiamò Gianni Brera. Giusto, per la potenza esplosiva, ma – almeno a me – questo soprannome fa venire in mente una persona che vuole imporre agli altri la propria personalità.

E in questo senso è uno pseudonimo sbagliato. Riva era schivo e lontanissimo da atteggiamenti da spaccone. Ma Brera di soprannomi ne ha sbagliati anche altri, dare a Rivera dell’”abatino” è stata una carognata stupida; parliamo del giocatore italiano con più classe e più neuroni (almeno calcistici) della sua epoca.

Riva, Rivera, Mazzola, Facchetti… veramente un’altra epoca di calcio.

Non credo di essere un vecchio nostalgico se dico che mi sembra che quella generazione di giocatori fosse fatta da uomini più veri e di cui era più facile innamorarsi, sportivamente parlando.

D’altra parte attorno al calcio giravano già tanti soldi, ma non le cifre assurde e le pressioni esasperate di oggi che hanno trasformato lo sport in un barnum spesso ridicolo.

Riva nasce in una famiglia povera a Leggiuno, paesino sul Lago Maggiore nella profonda Lombardia del nord.

Il padre fa l’operaio e la mamma sta a casa a crescere Luigi e i suoi fratelli. Poi il padre muore tragicamente in un incidente sul lavoro quando Gigi ha solo nove anni e tocca alla mamma mandare avanti la famiglia, lavorando in una filanda e facendo le pulizie a casa dei “signori”.

Gigi viene mandato in un collegio religioso, dove, lui racconta, erano severissimi, davano ben poco da mangiare e umiliavano i ragazzi poveri come lui.

DI certo una giovinezza difficile.

Il calcio diventa la sua valvola di sfogo, la speranza di riscatto per una vita che si preannuncia complicata.

Presto gioca in serie C, nel Legnano, e lì si mette in mostra a suon di gol.

Ad accorgersi che quel ragazzo taciturno è veramente forte è, prima di tutti, il Cagliari. Se ne accorge prima delle grandi, la Juve, le milanesi, insomma quelle che lottano sempre per il titolo.

Così Gigi nel 64 si trasferisce in Sardegna. Accetta solo perché ha voglia di giocare in Serie A ma sull’Isola ci va controvoglia; gli sembra un posto lontanissimo fisicamente e psicologicamente da sé.

Nella sua testa Cagliari è una breve tappa di avvicinamento alla gloria vera, che di sicuro si trova a Torino o Milano.

Non sarà così. Il lombardissimo Riva scoprirà una terra meravigliosa, l’amore della gente che lo addotta da subito e ne fa uno di loro, e non se ne andrà mai più.

Gigi Riva da Leggiuno, piano piano, diventa più sardo di un sardo e rifiuterà la corte di tutte le grandi squadre che hanno provato a comprarlo (che brutto termine!) negli anni.

Juve & C. si mangeranno le mani per non essersi accorte per tempo di quel ragazzo, lui no, lui ringrazierà la sorte per la distrazione delle presunte grandi che gli ha fatto trovare la terra giusta per la sua vita.

Nel 65, a soli 20 anni, il CT Edmondo Fabbri (quello rimasto famoso in negativo per la disfatta contro la Corea ai mondiali in Inghilterra del 66) lo fa esordire in Nazionale, e da dopo quegli sciagurati mondiali Gigi diventerà titolare fisso e inamovibile dell’Italia del calcio. Col suo 11 sulle spalle e il suo sinistro alla dinamite.

Ma sono gli anni del Cagliari che prima lotta e poi addirittura vince lo scudetto, nel 69 – 70, quelli più significativi della sua carriera. Lui è l’uomo simbolo e il trascinatore di una squadra formidabile che si metterà dietro le grandi. Miracolo di Davide che batte i vari Golia, miracolo che si ripeterà solo molti anni dopo, nell’85, con l’altrettanto fantastico Verona di Osvaldo Bagnoli.

E vale la pena di raccontare cosa fosse quel Cagliari. Ci sono giocatori di grande qualità oltre a Riva; c’è l’altro lombardo, Angelo Domenghini, e poi Cera, Niccolai, Nenè, e in porta Albertosi.

Ma soprattutto c’è lui, l’allenatore filosofo, Manlio Scopigno.

Taciturno come Riva, disincantato, ironico, fatalista.

L’esatto contrario degli assatanati super motivati che pensano (pensano??) calcio 24 ore al giorno (alla Conte, per intenderci).

Scopigno distribuisce a piene mani ironia tagliente verso il mondo in cui vive e lavora. E infatti dopo Cagliari farà pochissimo, quel mondo non gli perdonerà di essere un non allineato ai sacri stereotipi.

Apro brevissima parentesi, mai sentito le dichiarazioni di allenatori e giocatori? Con rarissime eccezioni sono di una banalità sconcertante, dicono tutti sempre le stesse cose, penosi.

Scopigno fuma e fa finta di non vedere che i suoi giocatori fumano, fa tardi la sera e non si sogna di controllare la vita privata dei suoi ragazzi. Il gruppo si allena solo al pomeriggio perché la mattina al Cagliari… si dorme.  

Il Cagliari Football Club è un’isola di anomalia totale.

Ma vince. Perché il calcio è un gioco molto più semplice di come lo fanno gli pseudo santoni (ieri e ancor più oggi) e perché la chimica che si crea tra quel gruppo di uomini così particolare funziona perfettamente.

La favola del Cagliari vincente – inevitabilmente – non durerà molto, quel tanto che basta però per restare nel ricordo di tutti come una sorta di felice rivoluzione anarchica nel calcio e per far venire un po’ di mal di fegato ai dirigenti delle grandi squadre.

Anche la carriera di Riva non durerà molto. Costellata da gravi infortuni, terminerà nel 76 quando aveva solo 32 anni.

Resta il più forte cannoniere della Nazionale, con 35 gol in 42 presenze e uno dei più forti attaccanti italiani di tutti i tempi con più di 200 gol segnati nel suo Cagliari.

Anche dopo aver abbandonato il calcio giocato il suo carattere non è cambiato.

Ha fatto il Team Manager per la Nazionale, ha fondato una scuola calcio per ragazzi ma è rimasto un uomo che parla poco, geloso della sua privacy.

Uno che non si è mai visto in giro su mega yacht o con starlettine in cerca di visibilità.

Insomma, riservato come un lombardo di una volta.

Chissà se quando guarda il meraviglioso mare di Sardegna pensa mai al suo lago?

STORIE DI NON SOLO ROCK-31 SONGS

DI CARLO MASETTI

Questa domenica avevo deciso di non scrivere alcun racconto. Volevo dedicare ad altre amenità varie il mio tempo “libero” (si fa per dire, un “road manager” che si rispetti, cioè un tuttofare, non ha mai un suo tempo libero, e figuriamoci un “rock blogger” come ormai vengo apostrofato; ma lasciamo perdere”! ahahah).

Però mi sembra un peccato… il mio appuntamento domenicale su FB con le storie di rock, così come quello di Vittorio con i racconti di sport, è diventato un incontro fisso con i nostri amici e non lo voglio perdere.

E allora eccoci qui con il piccolo AirMac a elucubrare qualche trovata per intrattenere tutti: pagina del documento di word completamente bianca e giù a immaginare che cosa scrivere.

Lo spunto mi è venuto stamattina (mercoledì): sono a letto, forse con il Covid, ancora non sono sicurissimo (Anto invece ce l’ha con certezza) e guardo la libreria in camera, quella dove c’è la mia collezione di libri di musica che ogni tanto prendo in mano (i libri voglio dire, la libreria è ben inchiodata al muro!). Li sfoglio e cerco la giusta ispirazione (Anto mi dice che attraversa un processo analogo quando deve iniziare un nuovo dipinto nel suo studio).

Stavolta prendo un libro che si intitola “31 Songs” di Nick Hornby, un autore inglese che amo molto e che ha scritto diversi libri sui giovani e sulla musica (Alta fedeltà, Febbre a 90 gradi, Un ragazzo…).

Sulla prima pagina, girata la copertina, trovo: “Carlo, Bruxelles, 29/04/2003). Si tratta dunque di un libro che ho acquistato all’aeroporto Brusselles-Zaventem della capitale europea in attesa di prendere il volo di ritorno a Milano dopo una delle infinite trasferte di lavoro.

Scorro l’indice e ricontrollo le 31 canzoni che Nick ha scelto e noto subito la sua proposta originale, azzardata, direi molto personale (era inevitabile): ci sono i grandi (Beatles con “Rain”, Led Zeppelin con “Heartbreaker”, Dylan con “Can you please crawl out your window?”, Bruce con “Thunder Road”, Santana con “Samba Pa Ti”, Jackson Browne con “Late for the sky”…) e poi una serie di meno grandi (Nelly Furtado, J. Geils Band, Mark Mulcahy, Suicide…).

Nick spiega un paio di cosette molto interessanti e su cui riflettere:

• I critici musicali spesso recensiscono le opere rock con il criterio dei ricordi che esse suscitano nel loro vissuto. Lui invece preferisce ascoltare brani rock (solo quelli) e semplicemente cercare di capire “perché li ama, perché li vuole canticchiare e perché li vuole proporre ad altri…”

• contrariamente a quello che si pensa, le critiche musicali sono spesso scritte da giovani che “non avendo una grande esperienza di vita, tendono a sovraeccitarsi e avere preferenze di gusti particolari, vicine al maistream per andare sul sicuro”.

Nick preferisce fare altre scelte, appunto più personali, anche a costo di non essere compreso.

Infine, caso unico, nel libro ci sono ben due brani dei Teenage Fanclub: “Your love is the place where I come from” e Ain’t that enough?”.

Well… nel panorama rock che mi è familiare, devo ammettere che non ho molta dimestichezza con questo gruppo. E non ce l’ho solo io, ma anche diversi critici musicali che vanno per la maggiore e che infatti non hanno scritto molto su di loro.

Scopro che si tratta di una band scozzese di Glasgow composta da quattro elementi (negli anni ci sono state diverse formazioni), che a turno scrivono le loro canzoni che poi vengono messe in musica dal gruppo. Hanno avuto il loro momento di gloria nel periodo 1991-1998 con tre album molto apprezzati dal Brit Pop, che sono Bandwagonesque (1991), Grand Prix (1995) e Songs from Northern Britain (1997, da cui sono tratti i due brani citati sopra.

Quando li ascolto mi sembra di riconoscere subito forti influenze di gruppi americani come i Byrds, i CSN&Y, i Beach Boys, o inglesi come Dinosaur Jr e Big Star.

Le canzoni sono molto piacevoli (ma secondo me non irresistibili) e Nick Hornby sottolinea nelle sue recensioni che “…Esiste uno strano fenomeno nella critica tale per cui recentemente solo opere d’arte (in letteratura, pittura, musica…) che sono “edgy” (taglienti, aggressive), “scary” (paurose, che incutono timore) o “dangerous” (pericolose) sono considerate degne di attenta considerazione…”. E questo alla lunga non va bene, spesso bisogna tornare alle cose belle, di qualità, che ammiriamo perché ci fanno star bene.

Here is a sunrise, ain’t that enough?

True as a clear sky, ain’t that enough?

Toy town feelings here to remind you

Summer’s in the city, do what you gotta do

(Ecco un’alba, non è abbastanza?

Vero come un cielo sereno, non è abbastanza?

I sentimenti della città dei giocattoli sono qui per ricordartelo

L’estate è in città, fai quello che devi fare)

Che ne dite?

Buona domenica a tutti!

PS: nell’altro libro di Nick Hornby, Alta Fedeltà, il protagonista Rob FlemIng stila anche lui la sua classifica dei cinque album da “portare su un’isola deserta”; eccola:

1. “Let’s get it on” di Marvin Gaye;

2. “This is the house that Jack built” di Aretha Franklin;

3. “Back in the USA” di Chuck Berry;

4. “White man in the Hammersmith Palais” dei Clash;

5. “So tired of being alone” di Al Green.

Per me questa va già meglio; Rob dice nel libro che si può sempre migliorare!

STORIE DI SPORT-OMAGGIO A UN GENIO

DI VITTORIO PENTIMALLI

Quattro giorni fa è morto nella sua Modena Mauro Forghieri, uno dei progettisti e tecnici più geniali degli sport motoristici del 900. Certamente, a detta di tutti gli addetti ai lavori, il più completo. L’unico al mondo che avesse competenza assoluta su tutto ciò che costituisce un’auto da corsa: motore, telaio, aereodinamica.

Aveva 87 anni ma era ancora perfettamente lucido, e questa morte è arrivata a sugellare la fine di un’epoca, quella in cui hanno convissuto in equilibrio tecnologia, passione e umanità.

Detto senza voler fare dell’inutile rimpianto del passato, oggi è tutto diverso e se la passione dei piloti è sempre la stessa, le componenti umane nel complesso della competizione hanno perso importanza rispetto all’esasperazione della ricerca tecnologica, rendendo gli sport motoristici assai meno avvincenti e coinvolgenti in confronto ai decenni del 900.

La famiglia Forghieri non era certo ricca. Il papà, Reclus (nome strano, ma è così), era un operaio che lavorava in Alfa Romeo, Enzo Ferrari lo conosceva bene, sapeva della sua bravura e dopo la guerra se lo portò nella nascente azienda e scuderia che portava il suo nome. Mauro intanto studiava e passava anche dei periodi di stage (ma chissà all’epoca come li chiamavano, di certo non così) in Ferrari, dove aiutava nel reparto progettazione, facendo capire tutti di essere un “ragazzo a modo” e molto sveglio. Nel 59 Mauro si laurea in ingegneria meccanica a Bologna e Reclus, che nel frattempo è diventato uno dei meccanici motoristi più stimati in azienda, chiede a Enzo, padre padrone della scuderia, un colloquio di lavoro per suo figlio. Il colloquio tra il già leggendario Ferrari e il giovanissimo Mauro si svolge tutto, assolutamente, in modenese stretto e alla fine Mauro è assunto nel team tecnico.

Team che era diretto da un altro genio della progettazione, Carlo Chiti, toscanaccio spiritoso e fuori dagli schemi, l’uomo che prima e dopo il periodo Ferrari, rese grande nelle corse l’Alfa Romeo.

Apro una parentesi per raccontare un aneddoto su Chiti, tanto per capire l’uomo e i tempi. Chiti, anche alle gare, portava sempre con sé il suo cane; un giorno Niki Lauda vede il cane di Carlo fare la pipì sulla sua Brabham – Alfa e subito corre dall’ingegnere a protestare! “Ma come, ma dove siamo? Il tuo cane piscia sulla mia Formula 1!”. Chiti lo ascolta imperturbabile, poi fa spallucce e in italiano gli risponde “Un fa nulla”…

Ma torniamo a Mauro, che quindi nel 59 entra nel reparto corse Ferrari diretto dal toscanaccio. Tra i suoi colleghi c’è anche un altro monumento del genio automobilistico italico, quel Giampaolo Dallara che poi lavorerà in Maserati, prima di dar vita alla Dallara che fa auto da corsa e piccole serie specialissime di auto praticamente da competizione ma adattate anche ad un uso stradale; gioielli tecnici per pochi appassionati intenditori.

Chiti e Ferrari avevano entrambi un carattere forte e fumantino e già nel 61 il rapporto tra i due si guastò, definitivamente (pare anche per motivi extra lavoro) e Carlo tornò a dirigere l’Autodelta, il reparto corse dell’Alfa Romeo. Ferrari allora decise di mettere a capo del suo reparto corse il ventisettenne Mauro Forghieri, un azzardo pazzesco; era già chiaro a tutti che Mauro era un progettista geniale ma era ancora un ragazzo con pochissima esperienza. Ma fu un azzardo che pagò. D’altra parte se c’era una cosa in cui Ferrari era bravo, era nel capire le qualità delle persone.

Da quel momento Forghieri diventa il deus ex machina di tutta la progettazione Ferrari. Studia e disegna motori a sei, otto e dodici cilindri, a V di 60 e 90 gradi, boxer (per chi non sa cosa sono… scusate non mi metto a spiegare), aspirati e turbo compressi, da Formula 1 e Formula 2. Progettò mitiche auto nella categoria Sport Prototipi che vinsero ovunque nel mondo, più e più volte la 24 ore di Le Mans (ma resta leggendaria soprattutto la parata vincente delle sue P4 alla 24 ore di Daytona del 67, a casa dei “nemici” della Ford. Lorenzo Bandini e Chris Amon davanti a Mike Parks e Ludovico Scarfiotti e Pedro Rodriguez e Jean Guichet).

Mauro ha vissuto l’epoca di tutti i grandi piloti Ferrari: Surtees, Bandini, Ickx, Regazzoni, Andretti, Scheckter, Lauda, Villeneuve, Alboreto… e tanti altri. Un aneddoto su Gilles, racconta Mauro che ogni volta che c’era da provare qualcosa di nuovo gli diceva qualcosa del tipo “non tirare subito al limite, abbiamo bisogno di fare giri e capire se funziona”, Gilles gli rispondeva “Ok Mauro, ho capito, vado tranquillo” e poi al primo giro Gilles era già uscito di strada spaccando tutto. Ma Mauro conosceva l’animo dei piloti e di quel pilota in particolare, totalmente incapace di non guidare al limite, sempre e comunque.

Era un lavoratore instancabile ma non si limitava a un lavoro di ufficio a progettare (con i suoi tecnici) motori, telai, sospensioni, cambi, aerodinamica. Lui era anche ai box a dirigere il team e i suoi piloti durante le corse. E immancabilmente mangiava con i suoi meccanici, lavorava con i suoi meccanici, un vero capo… adorato.

La sua intelligenza, la sua competenza ma anche il suo spirito e la sua umanità divennero un punto di riferimento per tutta la Formula 1. Rispettatissimo e forse persino amato anche dai rivali di sempre, gli inglesi di Lotus, McLaren, Tyrrel e tutte le scuderie di oltre Manica, per anni e anni avversarie del Cavallino.

Forghieri era un visionario, uno che vedeva oltre, uno che innovava sulla base di intuizioni. Per esempio, i primi alettoni nella Formula 1 li ha portati lui, lavorando con un ex pilota motociclista con la quinta elementare ma che della deportanza aveva già capito tutto prima dell’avvento delle gallerie del vento.

Il mito della Ferrari, la casa automobilistica più amata al mondo, deve moltissimo proprio a Mauro Forghieri. Il più significativo rappresentante della Motor Valley emiliana dove sono nate Ferrari (appunto), Maserati, Lamborghini, Dallara, De Tomaso, Bizzarrini e altre ancora. Quel posto dove si parlava inglese e modenese e dove tutti i tanti tecnici e piloti inglesi, francesi, americani che sono passati da Maranello hanno imparato (in fretta) ad amare quelle meravigliose creature per correre, i tortellini e il lambrusco.

Nell’87, per contrasti con la dirigenza burocratizzata della Ferrari in versione Fiat, Mauro recide il cordone ombelicale con Maranello e lascia il Cavallino dove aveva regnato per circa 30 anni. Passa in Lamborghini dove progetta un motore V 12 per la Formula 1 che correrà con i colori della scuderia di Larrousse.

Viene poi chiamato dalla Volkswagen, proprietaria del marchio Bugatti, a risolvere tutti i problemi di una super car progettata con arrogante voglia di stupire.

E infine, nel 94, fonda la Oral Engineering con cui progetta per conto terzi; per BMW progetterà motori da Formula 1 e per le MotoGP (ma la casa tedesca rinunciò all’avventura nella massima competizione motociclistica). Ma essendo una mente apertissima pochi sanno che lui progettò per Enel anche un’auto elettrica, ben prima dell’avvento del sig. Musk.

Forghieri era un uomo gentile, colto, amante dell’arte, conoscitore profondo non solo della tecnica motoristica. Lui conosceva molto bene anche l’animo umano e in particolare quello di uomini consapevoli di sfidare la morte ma assetati di competizione. Anzi, lui era il “ponte” naturale tra le idee nate e sviluppate in fabbrica e la voglia matta di vincere di quella razza speciale che sono i piloti. È quando funziona questo ponte che si crea l’alchimia vincente, quando qualcuno riesce a far dialogare le due componenti essenziali della competizione.

Oggi il mondo, in tutti i campi, è fatto di super specializzazione, sapere tanto di poco. Ma le persone che fanno fare i veri passi in avanti sono quelle che hanno una visione larga del proprio campo di competenze e direi anche della vita.

Mauro Forghieri da Modena è stato uno di quelli.

Un’annotazione finale, al funerale di Mauro c’era tantissima gente comune, poi alcuni vecchi piloti e molta gente che negli anni ha lavorato con lui. Ma non c’era nessun rappresentante istituzionale della Ferrari odierna, così internazionale. Non l’AD, non qualcuno del CdA, solo Piero Ferrari, il figlio di Enzo, vice presidente, ma uomo ormai fuori dalla direzione dell’azienda e Mattia Binotto, presente “a titolo personale”. Ritengo che sia stata una mancanza di stile e di memoria vergognosa da parte della Ferrari odierna, del gruppo Stellantis (pur se la Ferrari non ne fa parte in modo diretto) e soprattutto della famiglia Elkann – Agnelli (John Elkann è il Presidente). Ma chissà perché la cosa non mi stupisce per nulla, d’altra parte quella è tutta gente che vive nei loro uffici asettici, probabilmente non sanno neppure com’è fatto un “meccanico” (anche quelli di oggi che lavorano in ambienti praticamente sterili con tute immacolate), a stento qualcuno conosce l’italiano e di certo non capiscono il modenese e non bevono lambrusco.

PS Ci sono centinaia di fotografie di Forghieri con tutti i principali piloti che sono passati in Ferrari durante il suo regno tecnico, ho scelto questa, degli anni 60, lui molto giovane e Ferrari non ancora molto anziano. Chi è il pilota? Non ve lo dico ma i conoscitori veri, da un piccolo dettaglio, dovrebbero ricordarsi chi è…