LA MIA AMICA PIERA AIELLO E IL CORAGGIO DELLE DONNE

di BEBO MORONI

Ieri sera puntata straordinaria di “Insider” (Rai Tre): Roberto Saviano fa una lunga intervista a Piera Aiello, testimone di mafia, pupilla di Paolo Borsellino, cognata della povera Rita Atria, che la segui’ nella sua ribellione alle potenti famiglie partannesi. Piera era una ragazza, molto giovane, molto bella, che s’innamorò di un ragazzo molto giovane, molto bello, Nicola Atria, figlio del boss Vito. Piera sapeva poco di mafia e famiglie, ma capiva che c’erano profonde ingiustizie che si compivano sotto gli occhi semichiusi dei partannesi. Capi’ che il suocero era un padre padrone arrogante e violento e che il marito, pur non essendo organico alla mafia, figlio di quel padre e di quella cultura di illegalità e sopraffazione, si stava mettendo in impicci seri. Tento’ di salvargli la vita e di preservare quella della loro figlioletta. Inutilmente: Nicola venne ammazzato da un killer da 500.000 lire “a botta”. Piera voleva essere soltanto una donna normale, una madre, una lavoratrice. Piera con quel coraggio da leonessa, il coraggio delle donne, che dai tempi di Aristofane, fanno le rivoluzioni, inizio’ a parlare, e non smise più. Seguita in breve dalla cugina Rita Atria, una ragazzina bellissima e coraggiosa. Della povera Rita ho detto. Ma siccome le vite di Piera e Rita furono strettissima connesse, va ribadito che il suicidio della Atria fu un suicidio di solitudine, nonostante un nuovo amore, nonostante l’attaccamento a Piera e alla nipotina. Per lei orfana per forza, la morte prima di Falcone e poi di Borsellino che più d’ogni altro le era stato vicino, significarono la fine della speranza di un’emancipazione dalla paura e dal mondo oscuro e arcaico della sopraffazione. Non ci fu un funerale di Rita. Il prete si rifiuto’ di dirle messa e persino di benedire la bara. O meglio fu costretto a benedirla dalle “Donne dei Lenzuoli Bianchi”, che come le Madri di Plaza de Mayo, per lunghi anni, con la loro costante e infaticabile testimonianza, tennero sotto scacco la mafia. Furono le Donne dei Lenzuoli Bianchi a prendere di forza la bara di Rita, a caricarsela sulle spalle e a costringere il prete connivente a benedirla. E quando questi osò scagliarsi contro il “gesto insano” di Rita e la sua insolenza nell’aver messo in piazza i panni luridi della mafia, si voltarono di spalle in un gesto semplice e istintivo, ben più potente di un colpo di lupara. Piera continuò la sua infaticabile testimonianza. Oltre trent’anni sotto scorta, rinunzio’ al vitalizio dello Stato, andò a lavorare nei campi la mattina e a ricamare la notte, continuando a ribadire la sua indipendenza e la sua insopprimibile voglia di “normalità”. Ha cambiato tre nomi, fino a rimpadronirsi del suo nel 2018, quando venne candidata alla Camera dei Deputati. Una campagna elettorale senza foto e senza comizi, che Piera continua a fare una gran paura alle mafie. E’ stata eletta con un suffragio travolgente. Lo scorso anno ha coronato il sogno suo e dello “zio Paolo” (Borsellino), si è laureata in scienze politiche. Un anno fa la BBC l’ha inserita nell’elenco delle 100 donne più influenti al mondo. Sono orgoglioso di esserle amico e di essere stato in qualche modo suo “consigliere-collaboratore” negli ultimi due anni e mezzo, collaborazione che si è un po’ allentata solo per le mie precarie condizioni di salute, ma ammirazione e amicizia restano di ferro. Piera deve sapere che su di me potrà contare sempre. In quel misterioso intreccio di destini che e’ la vita, la mamma del mio Paolino, Giusi Cataldo, eccellente attrice palermitana e donna anti mafia della prima ora, interpretò proprio Piera nel bel film di Vittorio Nevano “Non Parlo Più” dedicato alla vicenda di Rita e Piera. Alla fine le rivoluzioni le fanno sempre le donne. Nel finale della lunga intervista che, se non l’avete fatto, vi prego di guardare su RaiPlay, Saviano chiede a Piera: “Ci torni mai a Partanna”? E Piera Risponde: “Si, a salutare gli amici, vado al cimitero. E porto tre rose: una la metto a mia madre, una a Rita e una a Nicola. Gliela metto e gli dico: non te la meriti ma io te la porto lo stesso”

STORIE DI SPORT-LE MAGLIETTE ROSSE CONTRO IL REGIME

DI VITTORIO PENTIMALLI

Con l’amico Carlo Masetti ci siamo posti il problema se fosse opportuno uscire oggi con le nostre storie di sport e di rock in un momento difficilissimo come questo.

Alla fine abbiamo pensato che sì, usciamo anche oggi con i nostri racconti domenicali.

Non prendeteci per presuntuosi, crediamo che i nostri racconti siano un piccolo appuntamento che fa piacere a chi legge e che nulla toglie alle cose assai più importanti della vita.

E allora eccoci qui, comunque ben consapevoli che a est di Milano stanno succedendo avvenimenti politicamente molto gravi e umanamente molto dolorosi che ci vedono vicini e solidali al popolo ucraino.

Le magliette rosse contro il regime

La storia che racconto oggi i “ragazzi” della mia età probabilmente almeno un po’ se la ricordano, ma dubito fortemente che dai 50 anni in giù ci sia qualcuno che la conosce.

Una storia in cui si mischiano sport e politica, che credo valga la pena di ricordare.

La generazione più forte – dati alla mano – del tennis italiano, è stata quella che ha giocato tra la seconda metà degli anni 70 e l’inizio degli 80, ovvero la generazione di Panatta, Barazzutti, Bertolucci e Zugarelli. Chissà se i Berrettini, i Sinner e tutti gli altri giovani leoni del nostro tennis attuale li supereranno, resta il fatto che quei 4 signori, oggi più o meno settantenni, hanno fatto la storia di questo sport in Italia, compreso l’aver vinto la Coppa Davis, una specie di campionato del mondo a squadre di questo sport.

Gli unici a riuscirci, nel magico 76 di Adriano Panatta.

Ma prima di entrare nel dettaglio della storia che vi racconto, facciamo un passo indietro.

Com’era il tennis in quegli anni?

La fine della distinzione tra professionisti e dilettanti (diciamo quasi dilettanti) aveva riunificato i circuiti e lo sport stava diventando realmente popolare, perdendo quell’alea di sport chic e snob che aveva prima in Italia (non nei paesi anglosassoni).

In più, l’avvento di campioni carismatici e molto lontani dalla tradizione dei “gesti bianchi”, come Borg, Connors, Vilas, poco dopo anche McEnroe, aveva aumentato di molto l’interesse delle giovani generazioni.

Ma tra questi campioni trascinanti c’era anche e senz’altro Adriano.

Panatta ha vinto molto meno dei giocatori che ho citato prima e ad alto livello è durato pochi anni, ma il suo tennis estroso, coraggioso, perfino un po’ folle e l’eleganza dei movimenti ne hanno fatto un idolo ovunque.

Lui era il leader di quella magica squadra italiana.

Parliamo di anni in cui il tennis – ma in generale tutto lo sport – era enormemente più semplice di oggi. Oggi i giocatori di punta sono l’espressione ultima di un team di professionisti. Coach, allenatori, preparatori atletici, tattici, strateghi, anche informatici; e poi nutrizionisti, fisioterapisti, psicologi… senza contare i consulenti finanziari.

Tutto in funzione di un obiettivo: vincere.

Non che i ragazzi degli anni 60, 70 e 80 non ci tenessero a vincere, ma era tutto meno esasperato e più giocoso.

Pietrangeli e Panatta non hanno di certo sacrificato la vita all’allenamento feroce e Borg, che per qualche anno è stato il vero primo super professionista dedito solo alla racchetta, è scoppiato a soli 26 anni…

Ma torniamo ai nostri ragazzi del 76.

La squadra era formata, appunto, da Panatta, Barazzutti, Bertolucci e Zugarelli; capitano Nick Pietrangeli, ex grandissimo giocatore, uomo di mondo e viveur in servizio permanente effettivo.

In quell’anno la squadra italiana di Davis sconfisse l’Inghilterra a Wimbledon con il fondamentale apporto della riserva Zugarelli, il giocatore italiano più adatto al gioco su erba.

Poi battemmo la grande Australia di Newcombe e Roche sulla terra del Foro Italico e quindi ci trovammo in finale.

In finale col Cile. Il Cile che da quattro anni era sotto la dittatura di Pinochet.

Iniziò un accesissimo dibattito politico se era il caso di giocare quella finale a Santiago. Tutta la sinistra parlamentare era per il boicottaggio, mentre la DC – ovviamente – era indecisa. Nicola si batté come un leone per convincere il mondo politico che al Cile del dittatore si poteva fare molto più male andando a vincere a casa loro che non lasciandogli la Coppa senza giocare.

Intanto nelle piazze c’era chi andava a manifestare al grido di “Pinochet sanguinario (vero), Panatta milionario (semi falso, i giocatori all’epoca guadagnavano cifre ridicole rispetto a oggi).

A convincere Berlinguer a non insistere col boicottaggio fu una telefonata con il segretario del disciolto partito comunista cileno, Luis Corvalan (ovviamente Corvalan era in incognito non si sa bene dove).

Fu il cileno che spiegò a Berlinguer esattamente ciò che diceva da settimane Pietrangeli, additato come simpatizzante “fascista” da molta sinistra.

La decisone se boicottare manifestazioni sportive in paesi in cui vengono calpestati i diritti civili non è mai semplice, ma l’unica cosa da non fare è non scegliere. Esattamente quello che fece la politica italiana che alla fine di aspri dibattiti decise di non prendere posizione e lasciò la decisione ultima a CONI e FIT, le quali, come logico dato il loro ruolo, fecero partire la squadra per il Cile.

La cosa squallida e divertente insieme, sublime picco di ipocrisia, fu che i giornali parlarono pochissimo dell’evento, terrorizzati all’idea di urtare qualche suscettibilità del pensiero dominante (non dimentichiamoci che anni erano, quelli in cui la cosiddetta intellighenzia teorizzava l’equidistanza tra Stato e BR e qualsiasi decisione “puzzava di fascismo”).

Anche la TV non trasmise le partite in diretta ma solo in differita, e solo dopo che i ragazzi vinsero sul campo i media cominciarono a parlare della cosa.

In pratica una grande vittoria di cui quell’Italia in cui il conformismo del pensiero unico la faceva da padrone, ebbe paura.

E scusate se mi sono dilungato, ora veniamo al fatto che volevo raccontare.

Poche ore prima della partita di doppio, Adriano va dal suo compagno Paolo Bertolucci con due magliette di un bel rosso acceso e gli dice: “oggi giochiamo con queste”.

“Adriano sei matto, questa è una provocazione bella e buona qui”, gli risponde Paolone.

“Esattamente!” è la risposta di Adriano con un ghigno di soddisfazione.

Adriano non ha mai chiarito bene se quella mossa fu un’improvvisa intuizione o frutto di ragionamento politico.

In ogni caso i due scesero in campo con le loro magliette di un bel rosso fiammante.

E che quella fosse una chiara provocazione lo capirono tutti, i generali del regime presenti in tribuna su tutti. Furiosi e incazzati.

Il doppio di Panatta e Bertolucci portò a casa il terzo punto e la vittoria in quella che ancora oggi è l’unica Davis vinta dall’Italia.

Una grande impresa sportiva (non tanto in finale, il Cile di Filliol e Cornejo era chiaramente inferiore, ma nei due turni precedenti con Inghilterra e Australia).

E infine, diciamocelo, l’unico gesto politicamente simbolico lo fecero loro, Adriano e Paolo con le loro magliette rosse.

Un gesto che qualcuno tentò anche di sminuire, si disse ad esempio che Panatta aveva usato la maglietta rossa anche nella sua finale vincente al Roland Garros. Chiaramente non è così, ci sono foto e filmati a dimostrarlo.

Certo, a molti bruciò che l’atto politico più bello lo fecero due ragazzi con le racchette in mano.

STORIE DI NON SOLO ROCK-THE GOLDEN TRILOGY (+1)

DI CARLO MASETTI

Con l’amico Vittorio Pentimalli ci siamo posti il problema se fosse opportuno uscire oggi con le nostre storie di sport e di rock in un momento difficilissimo come questo.

Alla fine abbiamo pensato che sì, vale la pena di uscire anche oggi con i nostri racconti domenicali.

Non prendeteci per presuntuosi, crediamo che le nostre storie siano un piccolo appuntamento che fa piacere a chi legge e che nulla toglie agli avvenimenti assai più importanti della vita.

E allora eccoci qui, comunque ben consapevoli che a est di Milano stanno succedendo vicende politicamente molto gravi e umanamente davvero dolorose che ci vedono vicini e solidali al popolo ucraino.

Gli amici mi dicono che nei miei appuntamenti domenicali ho parlato troppo poco del genere PROGRESSIVE ROCK e che questo fatto comincia a diventare una grave lacuna. Allora oggi, ultima domenica di febbraio 2022, vorrei ritornare con la memoria agli anni 1971-1975. Perché proprio quel periodo? Qual è la vostra risposta?

La mia è che studiavo Ingegneria a Roma, giocavo a basket, cazzeggiavo con gli amici (perché non si può essere sempre troppo seri, ci vuole anche “un po’ di leggerezza e di stupidità” dice il Maestro Franco Battiato), nel 1974 mi sono laureato, e poi sono andato militare… ma soprattutto mi ricordo che c’era una band inglese che andava per la maggiore e si chiamava (in realtà già dal 1967) GENESIS. Faccio riferimento proprio a quegli anni però perché in quel periodo il gruppo presentò la sua migliore formazione di sempre, quella considerata storica, e pubblicò una trilogia (più un quarto disco) che rimangono nelle cronache del rock (non solo progressive).

La formazione era costituita da:

Peter GABRIEL (voce, flauto, oboe, percussioni)

Tony BANKS (piano, tastiere)

Mike RUTHERFORD (basso, voce)

e due nuovi arrivati alla fine del 1970:

Phil COLLINS (batteria, voce)

Steve HACKETT (chitarre, voce)

I primi tre erano membri fondatori del gruppo, compagni di studi alla Charterhouse School, esclusivo college privato inglese: con altri musicisti avevano formato la band alle origini e pubblicato due album. La loro musica, catalogata come “pop sinfonico”, aveva incuriosito la critica alla ricerca di nuovi complessi e nuove idee dopo lo scioglimento dei Beatles (considerata una semi-tragedia nazionale). Il risultato commerciale però era stato tutt’altro che entusiasmante. Per motivi vari la band aveva perso pezzi per strada (alcuni membri avevano addirittura deciso di smettere e di tornare agli studi universitari) ed era chiaramente in difficoltà. In particolare servivano un nuovo batterista e un ottimo chitarrista.

Le audizioni per queste scelte iniziarono nell’estate 1970 e terminarono alla fine di quell’anno. Phil Collins fu scelto quasi subito, risultando, oltre che un ottimo drummer, anche una persona gioviale e simpatica in grado di legare facilmente con gli altri. Per il chitarrista risultò un po’ più complicato perché il musicista da inserire aveva un ruolo determinante ed un compito fondamentale, cioè trascinare la band con virtuosismi sperimentali non di poco conto (vedremo in seguito). Alla fine Steve Hackett accettò la proposta e il gruppo si ritenne al completo.

I cinque iniziarono alcune sessions e i risultati questa volta furono da subito molto buoni: sia dal punto di vista musicale, sia da quello scenico.

Testi surreali e quasi onirici, riferimenti mitologici (personaggi del mito immersi nella realtà di oggi), fiabe, filastrocche, accenni letterari (ma sempre con doppi sensi, assonanze di vocaboli, giochi di parole che rendono il tutto quasi intraducibile); musiche maestose, quasi sinfoniche, con largo uso di sintetizzatori, ma anche di chitarra elettrica, un rock molto diverso da quello suonato in quel periodo storico. Inoltre nei concerti Peter Gabriel, il frontman riconosciuto, faceva quasi storia a sé: presenza scenica inimitabile, con faccia pesantemente truccata, maschere, vestiti imbarazzanti, travestimenti vari per assumere le sembianze di personaggi improbabili…

I cinque sfornarono in quegli anni tre album, “Nursery Cryme” (1971), “Foxtrot” (1972) e “Selling England by the Pound” (1973), definiti in seguito “The Golden Trilogy” e, dopo una travolgente tournée negli Stati Uniti, un quarto disco “The Lamb Lies down on Broadway” (1974) altrettanto notevole. Non voglio ricordarvi che l’anno dopo, al culmine del successo, Peter Gabriel, quasi inspiegabilmente, lasciò il gruppo, perché questo fatto fa ancora venire il mal di pancia (e parecchio dispiacere) ai tantissimi ammiratori della band.

A questo punto dobbiamo trovare il video giusto per il nostro racconto. Quale canzone vogliamo ascoltare? Nella trilogia, più quarto album, c’è solo l’imbarazzo della scelta: The musical box, The return of the Giant Hogweed, The fountain of Salmacis; Watcher of the skies, Time table, Can-Utility and the coastliners, Supper’s ready; Dancing with the moonlit Knight, I know what I like (in your wardrobe), Firth of fifth, The battle of Epping Forest…

Quindi non potrò mai accontentare tutti. E allora questa volta consentitemi di proporre TRE brani, uno dei quali nasce da un ricordo di parecchi anni fa.

• Agosto 1985, Punta Licosa.

Punta Licosa è un promontorio stupendo, con relativa isola di fronte, non distante da Santa Maria di Castellabate, in provincia di Salerno. È una località non accessibile al pubblico in quanto proprietà privata, contesa fin dagli anni settanta tra il principe Gioacchino Granito di Belmonte e la famiglia Boroli, fondatrice del Gruppo De Agostini di Novara. All’interno di questo comprensorio è stato concesso, alle famiglie dei contadini che originariamente lavoravano la terra, di costruire delle case che nel periodo estivo vengono date in affitto ai villeggianti.

Da qualche anno passavamo il mese di agosto in questa località incantevole, conoscevamo ormai tutti e posso dire che nostra figlia Chiara ha mosso i primi passi in uno dei cortiletti davanti alle case: sempre molto timida, era diventata però la mascotte di tutta la comitiva.

Quell’anno venne in vacanza a Punta Licosa anche Livio, nipote dei miei cognati Alfredo e Marina. Si era diplomato da poco al Conservatorio di Napoli in Musicologia, e il suo strumento di riferimento era la chitarra classica. La sera tutti noi affittuari gli davamo il tormento affinché tirasse fuori lo strumento e ci allietasse con qualche musica da lasciare a bocca aperta. Cominciavamo la mattina sugli scogli chiedendogli quale scaletta avesse in mente per quel giorno (Livio, che ci suoni stasera?) e continuavamo il pomeriggio in pineta tra una partita di pallavolo, una lettura, un pisolino… (Livio, hai fatto le prove per stasera?), facendoci anche raccontare qualche aneddoto divertente soprattutto sulle manie e le fisime dei professori del Conservatorio. Inutile dire che io, già da allora appassionato di rock, stavo sempre in prima fila e forse ero quello che lo scocciava di più. Livio non mi mandò mai a quel tal paese come tutti dicevano che avrebbe dovuto fare abbondantemente, anzi un giorno mi disse: “Carlè, stasera t’accuonc’ie, vedrai!”. Non riuscivo a immaginare che cosa potesse tirar fuori dal cilindro, o meglio dalla cassa armonica della sua chitarra.

Ebbene, quella volta sotto una luna piena che illuminava tutto l’ambiente quasi surreale, suonò perfettamente nientemeno che “Horizons”, un brano strumentale dell’album “Foxtrot” dei Genesis. Fu talmente bello (e lui talmente bravo) che la richiesta di ripetere quel pezzo andò avanti ogni sera fino a quando Livio non partì a fine agosto per tornare nella sua città. Chiara gli girava sempre intorno, tenendo in braccio il suo pelouche chiamato “Zonzo” (in onore del cane dei contadini) e ballava alla sua maniera facendo divertire tutti.

Fu un’estate indimenticabile e, ancora oggi, dopo tanti anni, l’ascolto di questo brano da un lato mi fa sorridere e dall’altro… sentire i brividi dietro la schiena.

Sono le meraviglie della musica rock, che, ormai l’abbiamo detto tante volte, non è solo rock!

Buona domenica a tutti!

PS: c’è sempre un PS, ma questa volta quasi quasi lo lascerei a voi: da parte mia, solo la settimana scorsa avrei potuto aggiungere “no further comments”! Però oggi, visto che abbiamo parlato degli anni 1971-1975, ricordo che c’era uno slogan che andava molto di moda (era nato però in America già intorno al 1965 a proposito della guerra nel Vietnam): “Make love, not war”. Non sarebbe stupendo se potessimo riesumarlo proprio oggi?

ACCANTO A NOI

di ANNA FERRUZZO

Seguo con crescente preoccupazione le notizie sulla crisi in Ucraina e mi sembra di capire che secondo alcuni commentatori televisivi gli italiani sembrano non essere ancora del tutto consapevoli dei reali rischi del pericoloso allargamento del conflitto alle porte dell’Europa. Probabilmente è vero. Ancora storditi dalla pandemia infinita, non tutti siamo stati attenti a ciò che stava succedendo fuori dal nostro minuscolo universo mondo. I commentatori televisivi però colpevolmente omettono le proprie responsabilità rispetto alla disinformazione degli italiani riguardo ad argomenti tanto importanti. Negli ultimi due anni tutto, o quasi, si è concentrato sulla pandemia e nell’ultimo anno quasi esclusivamente sullo scontro green pass si, green pass no. Effettivamente l’annichilimento dovuto alle restrizioni, alla paura, alla crisi economica, all’ impreparazione, alla confusione e al continuo bombardamento mediatico ci hanno chiusi nel nostro guscio, rendendoci impermeabili alle allarmanti notizie che trapelavano di tanto in tanto. Ma come dicevo, l’informazione non è esente da colpe, anzi. Sempre pronta ad alimentare scontri tra opposte fazioni e relativi fanatismi sulla vaccinazione, pro o contro (alle volte anche solo per un punto di share), ha perso di vista la sua vera funzione. I tg televisivi, i vari talk e così pure la carta stampata hanno ristretto il campo dell’informazione alla sola pandemia e svolto un ruolo quasi esclusivamente “rieducativo”, quando non proprio punitivo, contribuendo non poco ad alimentare le già aspre polemiche in un paese dolorosamente diviso tra cittadini responsabili e irresponsabili, tra buoni e cattivi, tra civili e incivili, tra vaccinati e non vaccinati. Di ciò che stava per succedere accanto a noi, fino a dieci giorni fa non c’era traccia, e me ne sorprendevo ogni volta che seguivo un tg o sfogliavo un giornale. Bene, ora che l’informazione, e noi con lei, sembra essersi bruscamente destata dal maligno incantesimo, oggi che abbiamo finalmente raggiunto l’anelato obiettivo del novanta per cento dei vaccinati e del cento per cento degli storditi dal bombing mediatico, siamo finalmente pronti ad entrare in guerra. Una guerra che potrebbe avere esiti assolutamente imprevedibili e devastanti, ma che ci trova pronti, con l’agognata carta verde in tasca e il solito prosciutto ben piazzato sugli occhi.

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LUPI IN CAMPO

di MASSIMO WERTMULLER

Una umile riflessione non per proporre un altro esperto di guerra, che dopo quelli sul virus di esperti qui sul social ce ne stanno pure troppi, ma per sottoporre un pensiero nato dalla preoccupazione e dalla passione civica. Se all’inizio Putin aveva avuto le sue ragioni, come quella secondo cui una forza Nato, quindi molto americana, al suo confine non sarebbe stata certo per lui rassicurante, e aggiungo la ragione storica di sentire l’Ucraina come parte integrata della Russia al di là di qualsiasi referendum, oggi, con l’accettazione d’ufficio delle istanze separatiste del Donbass con probabile, relativa, conseguente invasione, forse persino acclamata, del territorio, Putin, secondo me, ha quantomeno alimentato la fiamma del conflitto. Usare armi, invasioni, minacce, annessioni di forza, non sono certo segni di apertura o dialogo. E questo quando ancora, fino a pochi minuti fa, si proponevano spazi per la diplomazia, per i tavoli di concerto. Se c’è stato un momento in cui questa vicenda sembrava orchestrata a propri interessi dall’America, oggi non sembrano esserci più lupi e agnelli, ma solo lupi in campo. Con la differenza che oltre a sembrare una pazzia non fare tesoro oggi della Storia, per le rispettive insofferenze, si rischia l’estinzione del mondo. E con la considerazione del fatto che qualche cetriolo incombente è più cetriolo di altri. Voglio dire che sul campo oltre i lupi ci sono canidi, seppur di razza (l’Europa) e qualche moscerino (l’Italia). Quindi se è vero che la guerra porterebbe con sé tragedie economiche ed energetiche incommensurabili, è vero pure che tra i più colpiti ci saremmo senz’altro noi. Trivellare il nostro suolo, poi, come si dice in giro dalle parti del Ministero, vorrebbe dire operare un disastro ambientale per risolvere la questione limitatamente ad un anno massimo. Senza contare che il gas, poi, lo venderemmo. Una tragica presa in giro, insomma. E se si allarga la visuale al più grande tema dei rapporti internazionali, ricordando che le uniche pagine di un certo valore della nostra politica estera sono state l’antica Roma, la Repubblica Romana del 1849, il Mussolini prima della sua follia “imperialistica” e del suo revisionismo e lo schiaffo a Sigonella di Craxi, sapere che al Ministero degli affari esteri c’è Di Maio non aiuta certo. Non per la persona in sé, per carità, ma perché sarà sempre troppo tardi quando ai dicasteri andrà qualcuno esperto della materia che rappresenta. Avete visto difatti che i primi incontri per decidere le misure da adottare sono stati fatti tra Germania, Francia e Inghilterra no? Speriamo allora che usino l’autorità riconosciuta di Draghi in seguito, per fare la pace, ma nel frattempo, la situazione non è certo allegra. Lo so che lo sapevate, ma mi sembra che almeno parlarne tra noi sia doveroso.

© massimo wertmuller

MIAGOLA

di TINA RIZZO DE GIOVANNI

Miagola

La prima fresia gialla

Alle carezze inusuete di certi

refoli di vento impetuosi

con pause di riflessione

a tratti Indecise sulle piante

del terrazzo ebbro di verdi

piante in gravidanze

Ansiose di esibire il loro fiore

Svestite della comoda pigrizia

invernale del dovuto riposo

ai brividi dell’ acre inverno

A ruminare stagioni di progetti

E slanci arditi di colori

Programmi di soli estivi

Su bocche frementi di fioritura

Mentre transitano gli azzurri

a chiazze portati a un vago pianto

Di pioviggini a energia alterna

Con qualche sbilenca foglia

Conclusa che ghirigora

L’epilogo in mulinelli

e vuoti vortici del niente

L’ eredita ‘ di ghigliottine

A crudi spruzzi di maltempo

un assonnato pigro cane

affonda nel letargo

a spigolare dietro la finestra

La sua fame di calore

Ai raggi incostanti

di tiepido sole altalenante

Febbraio sgrana breve

I Grani dei giorni all’ultima

decade del rosario dell’anno

A lui serbata come poste

Di una corona gia ‘composta

Giunta quasi a conclusione

Consola marzo felpato

Dai passi prossimi

e il grembo della natura

Addobba violini tzigani

E cembali ai ritmi pulsanti

del battito della vita

© aqua_liristka

ERA?

di TITTI DE SIMEIS

Era il 1945. Era passato, il verbo e la storia. Era un tempo al futuro, all’infinito dopo tanta follia, da non rivivere mai più. Era giusto, era vero. Era una promessa da mantenere. Erano folle di piazze, ritorni a casa, toppe da ricucire, insonnia, memorie e infamie da smantellare, paure e magrezze dell’anima. Era il freddo di case perdute, radici irriconoscibili senza più vita, sdentate sulla soglia del disincanto. Ma erano anche i giorni a venire, faticosi di sgomitate, tra macerie irrisolte e nuovi colori, tra libertà incredule e spazi senza più cancelli. Era domani, ancora confuso di gioia a singhiozzi e languori da sfamare. Erano mani senza più fede e spose da riabbracciare. Erano libri da scrivere, da scavare nelle strade sepolte e riportare tra le dita, segnare col rosso per farne vessilli. Era la vita che rientrava da ogni prigione, da tutte le brutte canzoni stonate e stridenti, con la voglia indecente di un ballo ad occhi chiusi. Era il bisogno di dimenticare e stringersi, con l’amore tra i pensieri a ridare un senso ad ogni senso. Era il dopo che svegliava l’apatia e assopiva il dolore, era riconoscersi a mani strette e molliche nuove da infornare. Era il pane, di nuovo. Era tutto, e di nuovo possibile. Era tutto finito. E incredibile. Come oggi. Incredibile che possa tornare. Che l’aria riprenda a tirare su cattive strade e riporti a ricordare, rimpiangere, soffocare di nostalgia e crampi di rabbia, in boati di neve e impronte di respiri spenti, su treni senza meta, corse senza biglietti e nuove attese, favole per i più piccoli tra zucchero e ninne, terre di abbandoni e vite svendute alla conquista di una ragione sterile e senza vittoria. Il diritto che affossa i diritti, il potere che accende il buio, l’ignoranza che diventa maestra saccente e stupida ancella di menti in pericolo, pronte a farsi, ancora e ancora, miccia dell’incoscienza.

© web

LA PACE SIAMO NOI

di MARCELLO BUTTAZZO

Turbolenza, vivace confusione, ordinato fluire di ragazze e ragazzi. I loro giovani corpi, i loro freschi e bei visi, i loro occhi profondi innaffiati di luce, vivono d’ansia: un’ansia di pace, di solidarietà, di fratellanza, di libertà, di unità d’intenti. Sono i giovani delle belle speranze ancora inespresse, dell’impegno, delle multiformi manifestazioni. Hanno un valore intrinseco questi bravi ragazzi, una gioia di vivere, che è un vivere i giorni della quotidianità in un sincero afflato amorevole, in una sana simbiosi di passioni, in una rincorsa di rabbie costruttive. Oggi è una giornata speciale per loro (e per me): fra pochi minuti, arriverà a parlare di guerra e pace, di libertà e dintorni, di giustizia sociale, Alex Zanotelli, missionario Comboniano, protagonista di centomila battaglie di civiltà umana, cristiana, civile. Alle ore 10 del mattino, l’Aula Magna è strapiena. Giovanotti di tante e tante scuole medie superiori sono convenuti qui, stretti in un fisico abbraccio al loro, al nostro Padre Alex, figura di riferimento, che indica a tutti la strada maestra, il sentiero luminoso da seguire, onde edificare un mondo migliore possibile. Il Padre viene presentato da alcuni arguti studenti. “La guerra, in quanto tale, è da eliminare. La guerra va espulsa, messa fuori dalla storia”, dice compostamente risoluto un ragazzo. “Noi siamo il seme d’un mondo migliore”, ripete un altro. “Dalla pace della coscienza, alla coscienza della pace”, con voce ferma sentenzia, giustamente, un altro ancora. “Noi siamo la nuova generazione, possiamo farcela, se vogliamo”, declama con dolcezza una graziosa figliola del Tecnico per periti aziendali Grazia Deledda di Lecce, salita in cattedra ad ammonirci, senza orpelli, senza perifrasi alcuna, che, d’ora in avanti, sempre più, tutti dovremo fare i conti con questo nuovo vento impetuoso, di brezza leggera, genuino, senza incrostazioni ideologiche, che avanza. Questa meravigliosa gioventù che avanza. Soave, s’avanza, come la primavera. Alex, barba bianca, che sembra un angelo venuto sulla Terra, a darci una scossa elettrica, a mostrarci la strada, è subito in sintonia coi giovani: “Dopo Hiroshima, non si può più pensare ad una guerra giusta. Dobbiamo rendere la guerra tabù. Tutte le guerre ingiuste”. È proprio così, le stolte guerre sono l’insania del mondo, sono la manifestazione più palese e più appariscente della stupidità di certo potere economico dominante, che erompe invasivamente, in forme virali e batteriologiche, ad inquinare la Terra, a farne cencio, straccio, confine di Nessuno, ove annegano i dannati del mondo, gli ultimi, i disperati. Gridare il nostro “no” assoluto, reciso, assordante, alla barbara guerra, vuol dire, secondo Alex, esprimere il più assoluto diniego al sistema economico finanziario mondiale dominante, in forze alleato contro i diseredati. Fame, malattie, nuove povertà, esseri umani sterminati per fame (40 milioni ogni anno): questo opulento e criminale meccanismo di controllo economico – finanziario, nelle mani di pochi “spiriti” eletti, invogliato dai vari padroni del mercato globale, i giovani di Lecce, di Bari, di Napoli, di Milano, di Parigi, di New York, di Pechino, di Mosca, lo devono necessariamente abbattere con la forza stritolante e dirompente del pacifismo e della non violenza gandhiana. L’opinione pubblica mondiale non può più tollerare che solo il 20% degli spettrali detentori del potere economico, del mefitico flusso del potere economico, decidano i destini di tutte le genti, le ingiuste distribuzioni delle risorse naturali. Mentre guardavo quell’angelo bianco amabilmente dissertare di privatizzazioni, di assurde militarizzazioni, di guerre fintamente etniche, delle mille guerre nella calda Africa, dimenticate dai poteri politici e di controllo, da tanti mezzi d’informazione, m’assaliva, mi prendeva una moltitudine di pensieri. Pensavo alla pace, alla giustizia, che non sono istanze astratte, su cui tanti politici, in prima e seconda serata televisiva, pietosamente arzigogolano e annaspano. La pace non è quiete, stagnazione, tutt’altro: essa rompe gli schemi, esce veloce dalle chiuse stanze delle Università, dai fogli dei giornali, dalle valide parrocchie, dalle belle ed entusiasmanti Totti argentine, e s’insinua fra la gente. La pace è un desiderio insopprimibile. La pace siamo noi, potremmo dire (mutuando dalla Storia di Francesco De Gregori), nessuno si senta offeso, nessuno si senta escluso. Negli abbracci di questi studenti del leccese, che si scambiano bacetti, tenerezze, c’è una potentissima filosofia di pace, che si vedrà sempre più per le strade in composti, variopinti e multietnici cortei arcobaleno. I giovani leccesi, col loro Alex, dicono basta alle infinite guerre per le risorse naturali, per il petrolio, alle abominevoli e assassine guerre preventive, e a quelle fittamente “umanitarie”. Essi dicono che la vita vuole vita, vuole andare fra la gente, e non vuole andarsene più. La pace è non violenza. La non violenza è pace. Le bandiere arcobaleno e quelle gandhiane si dovranno dare la mano, sfilare a braccetto. Sfidare con truce ghigno i cosiddetti potenti del mondo, che dovranno costantemente sentirsi il serrato fiato sul collo di un’opinione pubblica sempre più consapevole, sempre più matura”. “Tu non sai le colline, dove si è sparso il sangue. Tutti quanti fuggimmo, tutti quanti gettammo l’arma e il nome. Una donna ci guardava fuggire. Uno di noi si fermò a pugno chiuso, vide il cielo vuoto, chinò il capo e morì sotto il muro, tacendo. Ora è un cencio di sangue il suo nome. Una donna ci aspetta alle colline”, scriveva Cesare Paese, grande poeta del Novecento letterario. E Pavese, fra le sue vigne, i suoi contadini, le sue radiose colline torinesi, aveva conosciuto l’insulto e la volgarità della guerra. I grandi, i giganti del pensiero ripudiano le guerre. I piccoli Bush ed epigoni del Nulla, invece, se ne fanno scudo, sono “costretti” a farle in nome della lotta al terrorismo. Ma quanti sono i terrorismi? Quanto diversificate sono le forme di terrorismo? Chi sono i veri terroristi?

( Lecce, sabato 9 maggio 2004 – Aula Magna dell’Università degli studi )

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STORIE DI SPORT-DAL VILLAGGIO ALLA FAMA, MUSCOLI E BEAUTY PER DOROTHEA

DI VITTORIO PENTIMALLI

In Italia il biathlon era uno sport quasi del tutto sconosciuto fino a poco tempo fa – non che adesso sia uno sport popolare – ma poi è arrivata lei, Dorothea Wirer, e questo sport molto nordico, qui da noi praticato veramente da pochissimi “pazzi”, ha cominciato ad uscire dai confini di una ristrettissima nicchia di addetti ai lavori.
Come sempre il volano della conoscenza è dato da un’atleta vincente e Doro è una che di vittorie ne ha inanellate veramente tante. E poiché è anche una gran bella donna, i media hanno cominciato ad occuparsi di lei e della sua strana disciplina che fa tanto “bellico”.

E in effetti il biathlon nasce appunto come disciplina militare e diventa definitivamente uno sport aperto a tutti solo dopo la seconda guerra mondiale.
Sport inventato nei paesi scandinavi e molto popolare anche in Russia, piano piano è diventato sempre più seguito anche in Germania e generalmente in Europa del nord e negli Stati Uniti.
In tutti i paesi dell’arco alpino sta cominciando a fare un po’ breccia solo da pochi anni.
Per chi non avesse idea di che cosa si tratti, è presto spiegato.
Sono gare di sci di fondo in cui gli atleti portano uno zaino con dentro una carabina e in vari momenti della gara di fondo devono fermarsi e tirare in un poligono.
Vincono gli atleti più completi, quelli che vanno forte sugli sci e che non sbagliano a tirare.
Molto difficile, molto duro.

Poi all’interno della disciplina ci sono vari tipi di gare, per distanze da coprire nel fondo e per tipo di sedute al poligono di tiro.
Da quando è nato questo sport, lo sforzo maggiore della federazione internazionale è quello di bilanciare i risultati della gara di fondo con quelli delle sessioni di tiro, per far sì che a vincere siano gli atleti più completi. In ogni caso, ogni colpo sbagliato è una penalizzazione di tempo nella gara sugli sci.
Data anche la sua origine militare, il biathlon è stato aperto alle donne solo di recente, la prima competizione internazionale femminile è dell’81. Ma ci sono voluti pochissimi anni per rendere le gare femminili frequentate da centinaia di atlete di tutto il mondo, bravissime e grintose, e assistere a gare estremamente competitive. Adesso poi ci sono anche delle divertenti staffette miste con atleti uomini e donne che gareggiano insieme.

E torniamo a Dorothea. Nasce a Brunico nel 90; sui genitori ci sono pochissime informazioni per giunta contraddittorie, quindi lasciamo perdere, pare comunque che il padre sia o sia stato un cuoco e titolare di un ristorante sempre a Brunico. Comunque è lui che ha avviato Dorothea a questo sport, che lei ha iniziato a praticare a seguito dei fratelli.
Ragazza con un’energia esplosiva, Dorothea si appassiona subito a questa particolare disciplina e inizia a vincere gare a livello giovanile.
Ma da ragazza pare che pensasse molto a divertirsi e meno ad allenarsi, anche perché dotata di mezzi atletici formidabili e quindi riusciva a vincere senza bisogno di troppi sacrifici.
L’impatto con le gare vere però la mette di fronte alla realtà dei fatti, se vuole vincere ad alti livelli il bilanciamento “divertimento – allenamento” deve cambiare.
Sarà il Direttore Tecnico del biathlon italiano, Fabrizio Curtaz, a farle capire che lei ha i mezzi per diventare una vera campionessa, a patto di iniziare una vita completamente dedicata allo sport.
Doro cambia registro. Entra nel Gruppo Sportivo delle Fiamme Gialle e il biathlon diventa la sua professione; parallelamente i suoi allenamenti si fanno intensi e professionali, e progressivamente i risultati arrivano.
Nel 2015 vince la sua prima gara di Coppa del mondo ma l’anno della sua definitiva esplosione e consacrazione ad altissimo livello è il 2019.
In quell’anno Dorothea vince la Coppa del mondo e i Mondiali a Ostersund. L’Italia si accorge di lei ma nei paesi del Nord Europa diventa una stella di prima grandezza.
La ragazza ci sa fare sugli sci e con la carabina, ma ci sa fare molto anche come pubbliche relazioni. Per nulla timida, è perfettamente a suo agio negli eventi, nelle feste, nelle interviste.
In più sa usare con grande abilità i social e diventa una delle atlete più seguite in tutto il mondo, tanto per dire, su Instagram ha più di 600.000 followers che aumentano sempre più.
Tutto questo si sta traducendo in contratti di sponsorizzazioni, meritatissimi, che la proiettano fuori dal mondo degli sport “poveri”.

Nel 2020 vince anche i mondiali nella sua Anterselva, sua perché la famiglia vive nel comune di Rasun di cui Anterselva fa parte (siamo nella zona nord est dell’Alto Adige).
E finalmente anche i giornali italiani, non solo quelli tedeschi, si mettono a raccontare di lei. Si scomoda anche il PdC Conte a farle i complimenti…

Ma sui giornali Doro ci va non solo per le sue imprese sportive, molto ci va per la sua immagine.
È bella Doro, e non fa nulla per nasconderlo, anzi. È sempre perfettamente truccata anche quando gareggia e lo è anche quando posta le sue foto in allenamento mostrando un fisico strepitoso che è al contempo femminile e muscoloso.
Vanitosa? Non direi, una giovane donna di oggi consapevole della potenza mediatica dei social e che ha voglia di essere conosciuta. Proprio niente di male.
D’altra parte si deve a lei se questo sport sta uscendo dai confini dei pochi paesi in Alto Adige e in Val d’Aosta dov’è praticato.

In queste olimpiadi invernali in Cina, Doro ha conquistato un bronzo nello sprint individuale; aveva già vinto il bronzo in staffetta nel 2014 e nel 2018.
Per le Olimpiadi di Milano – Cortina avrà 36 anni e ha già detto chiaro che non sa se se la sente di fare altri quattro anni di gare, allenamenti e sacrifici.
Di certo il CONI farà di tutto per convincerla a non gettare la spugna, lei è certamente una delle personalità più trainanti e una delle atlete italiane più amate all’estero. Credo che anche i suoi sponsor si impegneranno per convincerla a continuare… meglio per lei!

Due curiosità: Doro è molto corteggiata, ma è sposata dal 2015. Il marito, Stefano Corradini, è un ex atleta e allenatore di sci di fondo. Il matrimonio sembra molto saldo e felice e lei dice sempre che deve molto a Stefano per la sicurezza che le ha dato.
Altra curiosità, sembra che l’edizione russa di Playboy le abbia offerto una cifra molto elevata per posare (ovviamente senza nulla addosso) sulle sue pagine, ricevendo però un rifiuto.

L’altoatesina che scia, spara, vince e padroneggia i social ha le idee molto chiare su come gestire la propria immagine, per le ingenue rivolgersi altrove.

STORIE DI NON SOLO ROCK-FATHER AND SON

DI CARLO MASETTI

Parole chiave di oggi: Rock – song – folksinger – Father and son = Cat Stevens.

Giusto. Nel 1970 il cantautore britannico proponeva la sua canzone sul divario generazionale ed in particolare sul conflitto padre-figlio e relativa incomunicabilità.

Ma non era questo l’aspetto famigliare che volevo trattare in questa domenica (credo che tutti noi abbiamo avuto prima o poi qualche problema di dialogo con i nostri genitori e quindi non sarei particolarmente originale). Vorrei invece raccontare della grande difficoltà di un figlio di fronte ad un padre molto famoso, così famoso da essere quasi irraggiungibile.

Nel mondo del rock e dintorni non è difficile incontrare situazioni di questo genere.

Quando tuo padre si chiama Bob Dylan o Bob Marley o John Lennon o Fabrizio De André (tanto per citare i nomi di alcuni “nanerottoli” poco conosciuti dai più) è davvero difficile sfondare nello stesso campo di cotanto genitore: infatti Jakob Dylan o Ziggy Marley (e fratelli vari) o Julian e Sean Lennon o Cristiano De André hanno percorso un pezzo della loro strada nella musica ma poi sono più o meno spariti.

Non basta infatti sfornare uno o magari due buoni dischi: per rimanere a galla nel cinico mondo musicale di oggi, dove tutto passa, tutto si consuma e si brucia in un attimo, bisogna avere un gran talento e qualità che non si ereditano.

C’è almeno un caso però in cui i due protagonisti (padre e figlio) sono considerati entrambi geniali (qualcuno arriva a dire il figlio forse ancora più del padre) e oggi vale quindi la pena di ricordarlo: TIM BUCKLEY (padre) e JEFF BUCKLEY (figlio). Una storia strana, sfortunata come vedremo, che ha unito (forse dovrei dire disunito) prima del tempo i due grandissimi artisti.

Timothy Charles (scusate il nome!) Buckley, per tutti “Tim”, nasce nel febbraio 1947 a Washington D.C. (scusate ancora, la capitale è la mia città americana di adozione!) e, dopo un breve periodo di vita nello stato di New York, si trasferisce con la famiglia in California (scusate per la terza volta, il mio stato del cuore negli USA!). A 19 anni sposa la sua compagna di liceo Mary Guibert, e, prima che nasca il loro figlio Jeff, abbandona tutti a Los Angeles e nel 1966 va a cercare fortuna a New York. Si fa notare per la sua voce, molto particolare, quasi angelica (qualche anno dopo verrà detto che la voce sta a Tim Buckley come la chitarra sta a Jimi Hendrix, tanto per chiarire il livello). Con l’etichetta discografica Elektra (niente male) pubblica una serie di album genere folk (in quel periodo il Dylan cantautore acustico la faceva già da padrone) e comincia ad essere ben conosciuto.

Quando decide di cambiare genere (passando dopo il folk ad un genere più “psichedelico”) viene contattato dalla casa discografica Straight Records di Frank Zappa e pubblica l’album “Starsailor”, considerato il suo capolavoro. Una canzone in particolare diventa un vero tormentone, coverizzata nel tempo da una serie di altri artisti (Tim l’aveva scritta tre anni prima ma tenuta nel cassetto non considerandola ancora all’altezza!).

Song to the siren:

“Long afloat on shipless oceans

I did all my best to smile

‘Til your singing eyes and fingers

Drew me loving to your isle

And you sang

Sail to me, sail to me

Let me enfold you…

…Hear me sing

Swim to me, swim to me

Let me enfold you

Here I am, here I am

Waiting to hold you.”

Dopo quell’album che lo rende un’icona della sperimentazione musicale, un artista difficile da inquadrare, Tim non riesce a ripetersi: le sue prove degli anni successivi non sono all’altezza della fama ormai raggiunta e consolidata. In questi casi è molto facile che la depressione sia dietro l’angolo, l’eroina e l’alcol sono dietro l’altro angolo.

A fine giugno 1975 il “navigatore delle stelle”, con la sua voce meravigliosa che forse non ha bisogno di altri strumenti di accompagnamento, viene trovato morto, stroncato da un’overdose a 28 anni.

Jeffrey Scott Buckley, per tutti “Jeff”, nasce nel novembre 1966 ad Anaheim, non lontano dalla grande Los Angeles, figlio di Tim e di Mary, divenuta una violoncellista classica. Vive la sua vita, con la madre ed il patrigno Ron Moorhead, a pane e hard rock (Led Zeppelin in primis e per tutta la vita, poi Jimi Hendrix, Who, Pink Floyd, Yes, Genesis… come tutti i giovani che si rispettino).

Una sera di fine 1974 la madre porta il piccolo (otto anni) a sentire un concerto al Golden Bear di Sacramento: l’artista che si esibisce è un signore veramente bello, affascinante, una massa di capelli riccioluti, un viso dolce ma un po’ triste, è suo padre Tim. Jeff non lo sa perché nessuno glielo ha detto: rimane fulminato da quella voce potente, da quella musica tra il folk e il jazz, dalla presenza scenica dell’artista. Decide che da grande farà la stessa cosa, suonerà e canterà musica alla stessa maniera.

Pochi mesi dopo apprende della morte del padre, che aveva incontrato fugacemente un altro paio di volte. In futuro non farà gli stessi errori, niente droghe, poco alcol.

Agli inizi degli anni ’90 Jeff lascia anche lui la California e va a New York, cerca di farsi conoscere nell’East Village, e dopo un concerto-tributo al padre, prende le distanze dalla sua memoria e inizia a comporre la propria musica.

Alla fine di agosto 1994, dopo varie demo, EP, tour in America e in Europa, la Columbia Records (mica pizza e fichi!) pubblica il suo primo album “Grace”. In poco tempo questo lavoro diventa disco d’oro in mezzo mondo con riconoscimenti entusiastici di Jimmy Page, Robert Plant, Bob Dylan, David Bowie… (mi sono spiegato?). In questo caso si può dire che Jeff erediti il genio e la dannazione del padre.

Dopo l’enorme successo, nei tre anni successivi Jeff è in un tour mondiale quasi senza soste. Ormai è una star affermata, molto più nota di Tim. Quando finalmente si concede una pausa, ha praticamente già pronto il materiale per il secondo disco e a giorni entrerà in studio a Memphis per le registrazioni finali.

Una sera di fine maggio 1997, in furgone, esce con il suo amico roadie Keith Foti: i due si fermano e si siedono sulle sponde del Wolf River, un affluente del Mississippi con una radiolina che trasmette “Whole Lotta Love” dei Led Zeppelin (immaginate che carica!). A quel punto Jeff si sente felice, decide di fare un bagno nel fiume (il suo rito di purificazione?), come era successo in varie altre occasioni; lo fa al solito alla sua maniera, cioè tutto vestito, compresi i suoi “combat boots”, gli scarponi che vanno di moda e dai quali fa fatica a separarsi.

Jeff nuota di schiena, un’onda anomala causata da un battello che transita lungo il fiume lo investe, lo manda sotto: Jeff non riemerge… Keith non lo vede tornare, dopo poco chiama la polizia, iniziano le ricerche. Troveranno il suo corpo una settimana dopo tra i rami di un albero sotto il ponte di Beale Street della capitale del Tennessee: Jeff è morto annegato, tutto vestito, ancora con i suoi scarponi, niente droga, niente pasticche, niente alcol, niente suicidio, solo un maledetto incidente fatale (conferma il Coroner, nonché il suo amico Keith). Jeff aveva 30 anni.

Ammesso che le sopraddette strofe di Tim potessero mai rivolgersi al figlio, Jeff avrebbe potuto dedicare al padre quelle di una delle sue canzoni più struggenti:

Last Goodbye:

“This is our last goodbye

I hate to feel the love between us die

But it’s over

Just hear this and then I’ll go

You gave me more to live for

More than you’ll ever know…

…This is our last goodbye

Did you say, “No, this can’t happen to me”

Did you rush to the phone to call

Was there a voice unkind in the back of your mind

Saying maybe you didn’t know him at all

You didn’t know him at all, oh oh, ya didn’t know

Ooo didn’t know…”

Buona domenica a tutti!

PS: Se non conoscete questi due artisti incredibili vi suggerisco di ascoltare almeno altre due canzoni per ciascuno:

Tim: “I never asked to be your mountain” e “Martha” (cover di Tom Waits)

Jeff: “Grace” e “Hallelujah” (cover di Leonard Cohen).