‘A BBELLA!’

di TITTI DE SIMEIS

Mademoiselle Ramazzotti si sfoga sulla sua pagina Instagram accusando di sessismo volgare gli uomini italiani. Durante una corsa al parco è stata vittima di apprezzamenti ‘non richiesti‘ (cit.) fischi e insulti sessisti, comportamento attualmente definito ‘cat calling’ ma che risale alla notte dei tempi. Molto di moda negli anni cinquanta-sessanta come il cinema del periodo racconta: vitelloni in vespa o a piedi abbordano le donne per strada con lusinghe più o meno esplicite. Allora bastava una borsettata per scoraggiare i provoloni in campo e finiva tutto lì. Sappiamo perfettamente che oggi la situazione in molte circostanze può degenerare ma, in questo caso specifico, non mi pare si debba gridare ‘al lupo’. Se non si trattasse di mademoiselle Ramazzotti, nessuno avrebbe osannato la segnalazione: una ragazza qualsiasi che posta sui social una frase come questa: “Appena mi metto una gonna e mi tolgo la giacca sportiva per correre io debbo sentire i fischi e i commenti sessisti? Mi fa schifo!”, alla meglio si accontenta di qualche like dagli amici e arrivederci. Per Aurora no. Per lei si mobilitano le testate dei giornali ed il mondo virtuale le fa da scorta. Come se avesse bisogno di essere tutelata o difesa. Invece il resto delle ragazze ‘anonime’ subisce in silenzio. Viene da pensare che i vip non siano mai sufficientemente appagati di visibilità ed attenzione ma vorrei, tutt’al più, sperare che la donzella abbia voluto mettere a fuoco un problema scottante attraverso la sua esperienza personale. Sulla seconda possibilità, però, nutro forti titubanze. Puntare i riflettori sul ‘sessismo’ è giusto ma che lo faccia la ‘figlia di qualcuno’ che va in giro con le guardie del corpo e non rischia nemmeno le sue doppie punte (ammesso che ne abbia) mi sa proprio di mera pubblicità. Per capirci: un buonismo da copertina patinata e da milioni di like sul suo profilo. E poi: cosa dobbiamo intendere per ‘apprezzamenti non richiesti’? Le ragazze vanno forse in giro a ‘richiedere’ apprezzamenti? Ci sarebbero, dunque, sollecitazioni a riguardo? Qualche giovane donna circolerebbe reclamando forme di corteggiamento magari anche volgari? Se così fosse, esisterebbe il sessismo ‘desiderato’ ed il sessismo sgradito. Il primo da ricompensa ed il secondo perseguibile? Vittime consenzienti e non? Stiamo scherzando. No eh? Stiamo cercando, disperatamente, un modo per trionfare nell’idiozia. E ci siamo, davvero, vicinissimi. Anzi, peggio: siamo alla deriva. Di ogni forma di equilibrio, di intelligenza. Pur di far girare una notizia, di creare schiamazzi, ci facciamo ridicoli illusi di credibilità. Riempiamo le pagine per inerzia, senza cognizione di senso, perché manca il tempo della critica e dell’autocritica ed anche un giornale, ormai, segue i tempi dei social: è preferibile battersi per una visualizzazione in più essere responsabili del proprio mestiere.

‘Poveri ma belli’ – Dino Risi.

IL CAREGIVER QUESTO SCONOSCIUTO

DI IRENE GIRONI CARNEVALE

Il capo della Protezione Civile Fabrizio Curcio in audizione alla Camera ha detto, tra le altre cose: “Sui caregiver bisogna arrivare a un protocollo per arrivare all’individuazione in maniera chiara di queste persone”. Benvenuti nel mondo reale! L’individuazione dei caregiver, caro Capo Curcio e Soci, non sarebbe necessaria se da SEMPRE ci si fosse interessati e preoccupati dei disabili e delle loro famiglie, se lo Stato avesse seguito l’Articolo 3 della Costituzione senza dimenticarsi di una bella fetta di popolazione. I caregiver, che sono gli ammortizzatori sociali, factotum senza tutele, di una persona disabile, dovrebbero essere noti alle Amministrazioni anche solo quantificando i disabili che ogni Municipio e ogni Comune conosce per numero e gravità. Il problema è che poiché, non mi stancherò mai di ripeterlo, i disabili e famiglie non sono una categoria con un potere contrattuale o d’interesse generale, ma vissuti come appendici fastidiose, anche vagamente parassitarie della società, nessuno se ne cura. E l’ignoranza profonda e colpevole su disabili, disabilità, patologie, neurodiversità, irrispettosamente buttate nello stesso calderone, portano a oscene performance politiche come quella che si prepara il 2 Aprile da parte della senatrice Binetti che ha organizzato un raduno con incolpevoli asinelli ed equini vari a sostegno di farneticanti teorie sull’autismo. SVEGLIATEVI! Avete un comitato tecnico scientifico che non ha pronunciato una sola parola o emanato uno straccio di protocollo dedicato ai disabili in più di un anno dall’inizio della pandemia. La disposizione della Regione Lazio in cui si afferma il diritto per questa misteriosa figura del caregiver di seguire il disabile che assiste in caso di ricovero per covid e non solo, è il frutto di lotte, richieste, urli e suppliche da parte di associazioni e onlus di genitori disperati senza i quali saremmo ancora nell’abbandono totale. E adesso vi decidete a realizzare un protocollo per individuarci? Diceva il Maestro Manzi, uomo degno e indimenticabile: non è mai troppo tardi! Spero solo che vi sentiate un po’ a disagio nello scoprire solo ora la nostra esistenza.

LE RICORDANZE

di PAOLO VINCENTI

Era inverno, in quel tempo gli inverni ancora cadevano qui a Sud, il freddo penetrava le finestre e sembrava già notte alle cinque di pomeriggio. Le ombre vaghe si allungavano nel semibuio del salone. Le case d’inverno avevano un che di autentico, originale, non saprei come definirlo in altri termini, ma anche spettrale, con quei lumicini a rischiarare tremuli un buio altrimenti compatto, lucido, stirato, un vero buio insomma, come arrivato dall’ante quem, quasi sputato dai primordi del tempo. Oh sì, abbuiava presto d’inverno e l’oscurità conferiva alle persone, nei contorni indefiniti, sfumati, dei volti splenetici, che a me richiamavano quell’atmosfera precisa e inconfondibile aspersa fra le pagine della mia antologia di italiano, “Comunicare con…”, aduggiata fra le sue parole, nel bianco e nero delle sue righe. In quei tre puntini di sospensione del titolo era l’estrinsecarsi della libertà, della più sfrenata fantasia, l’apoteosi delle possibilità. La libertà, cioè, di comunicare con chiunque, con tutto il mondo, a mio assoluto piacimento, secondando ogni più strampalato capriccio. Questo libro scolastico mi parlava di cose meravigliose e impalpabili come per esempio “La storia dei ricci” di Gramsci, oppure “Un leone di duecentocinquanta chili” di Folco Quilici, o ancora gli avvistamenti degli Ufo, e via leggendo. C’era una luce gialla nelle case d’inverno, che rendeva le persone cinerognole e a guardare quel fioco brillio da fuori si potevano cogliere, quasi che l’aria stessa li generasse, fili di sogni, arabeschi di figure riverberanti nel calore di quella luce. Al contrario, se dai vetri essudanti per il tepore delle stufe a gas, si guardava fuori, il teatro che si offriva alla vista era un buio sipario trapuntato da pagliuzze doro, un nero fondale solcato da luminescenze come le stelle dorate sulla carta cielo del presepe; e se si prestava orecchio allo scalpiccio dei passanti, quando non coperto dal rimbombo delle macchine, questo sembrava, nel silenzio della sera, il passo lieve di fantasmi, il germinale schiocco della vita nell’impatto con la terra e con la storia. Un buio così disposto, soprattutto quando il gelo accartocciava le foglie, nel tempo di tramontana secca e dritta, un buio così deciso, abalienato, io non l’ho più visto. Del pari, un silenzio così desolato, aurorale, in certi momenti dell’infanzia, mai più ho potuto sentirlo. In casa dei nonni, sorta di wunderkammer d’altri tempi, stipati agli angoli, ammassati nelle credenze o nei ripostigli, carabattole dimenticate, cianfrusaglie di ogni risma, oggetti inutili e romantici che oggi farebbero la gioia di un rigattiere ma che allora erano considerati, da mia madre, soltanto paccottiglia, ferri vecchi, inutile ciarpame nonnesco. Oh, l’odore della calce che cuoceva lenta nella calcara, come titillava le mie narici e la mia fantasia! Restavo intere ore, in barba ai compiti e ai richiami della nonna, davanti a quella broda fumante e ribollente che borbogliava strane formule alchemiche alle mie orecchie di iniziato, massime segrete, arcani a nessun altri intellegibili. Mio nonno muratore infatti produceva in casa la calce per i suoi lavori. Era inverno dunque, e il buio del salone era rischiarato solo dalla luce azzurrina del tv color Philips, che disegnava strane figure nella stanza. Guardavo un telefilm di fantascienza, “Zeffiro e Acciaio”. Di là, nella stanza della cucina, il camino crepitava e sentivo la nonna armeggiare davanti ai fornelli, intenta a preparare la cena. La stufa a gas mi trasmetteva un caldino appena sufficiente a sbrinarmi le narici smoccolanti e sgelarmi i piedi diventati ghiaccioli. Con il fumo che sbuffavo dalla bocca, mi divertivo a tracciare aeree volute prima che cristallizzasse a causa del gran freddo. Zeffiro e Acciaio erano viaggiatori del tempo e mi inquietavano quegli ambienti che essi frequentavano, così asfittici, scarni, disadorni, sporchi, fantasmatici. Mi raggomitolavo nel divano e mi facevo sempre più piccolo man mano che la tensione cresceva e la trama diventava più intricata. Come intricata era pure la trama del divano, in tessuto rosso Bologna, con i bottoni nella spalliera che la rendevano simile ad un gruviera. La tensione del telefilm diventava più serrata fino alla rivelazione, al disvelamento finale del mistero. Quel momento mi faceva sobbalzare, trasalire, e strozzavo in gola un urlo di terrore. Poi, riacquistavo la calma e continuavo a guardare la tv. E ancora rincantucciato nell’angolo destro del sofà, mi trovava la nonna quando accendeva la luce del salone. Anche un altro telefilm fantasy mi produceva lo stesso nero terrore: “Doctor Who”; e così pure un cartone animato: “Bem”. Memorabili pomeriggi, trascorsi nella casa dei nonni, quando il vapore lento del ferro da stiro saturava l’aria mentre io sonnecchiavo nel silenzio assorto davanti al camino dove i carboni ardenti mi ipnotizzavano con il loro frullio lento e regolare ed il brillio fioco intermittente. In quell’ozio sonnolente, saggiavo una pace inesplorata, una sorta di beatitudine che deve assomigliare alle estasi dei santi, alle trance dei medium, senza però alcuna capacità divinatoria. Ché anzi, tutta l’infanzia è proprio un crogiolarsi nella beata inconsapevolezza, nell’incoscienza del futuro. A volte, quando la nonna era assente, fuori per qualche commissione, ed io ero solo in casa, ad un certo punto, se la sua assenza perdurava, mi prendeva una sgradevole sensazione: quella di non essere solo. Non una sensazione vaga, indistinta, tipica dei bambini più facilmente impressionabili, ma proprio la percezione netta, tangibile, di essere osservato da qualcuno, che qualcun altro fosse con me, ospite indesiderato e vagante. Mi figuravo la presenza di questo spirito indiscreto che mi spiasse magari da sotto il letto o da dietro la grande cassapanca o da un angolo dell’armadio e tenevo fermo lo sguardo, piantato sul quaderno o sul libro su cui stavo studiando, per paura di incontrare i suoi occhi cattivi. Mi mettevo a ripetere ad alta voce la lezione di storia, oppure a parlare con me stesso per scacciare quel fantasma dalla mia testa. Mi ponevo delle domande, mi davo le risposte, spostavo a bella posta un oggetto o una sedia facendo più rumore possibile perché l’anima purgante, il poltergeist, il casper fastidioso, capisse di dovermi lasciare in pace. E guardavo la porta, con occhi offuscati dal pianto, nella speranza che si aprisse, che vedessi la nonna ritornare per sentirla scacciare con la sua voce quelle paranoie di bimbo, come sciocchezzuole, fanfaluche. Spesso parlavo con me stesso, anche quand’ero in giardino, nelle pause dei pomeriggi di studio, o la mattina nel bagno mentre mi preparavo per andare a scuola, oppure quando a piedi percorrevo lunghi tragitti. Non avevo molti amici allora, anzi non ne avevo nessuno, alcuna ragazza cui fare il filo. Mi contentavo di poco. Il pensiero della morte veniva spesso a visitarmi e alla lunga era diventato ossessivo. Madido di sudore, mi svegliavo nelle notti e accendevo le luci. Avevo paura di sperdermi. Avevo paura di perdere le persone care. Apparentemente estroverso, vivace, gioviale, ero in realtà piuttosto malinconico. Si sa, la vita è una rappresentazione comica e tragica e sempre i due momenti si bilanciano. Me ne stavo a volte, triste, con i gomiti sul tavolo. Ma quando i nonni mi lasciavano entrare nel pollaio per raccogliere l’uovo di tortora, così caldo, bianco, levigato, oblungo, oppure in primavera ritrovavo in giardino la vecchia tartaruga, appena uscita dal letargo, in quei momenti ero felice.

SICILIA: QUINTE D’AUTORE

di TITTI DE SIMEIS

Isola meridionale di un’Italia continentale e frammentata. Regione dallo stretto senza tempo e traghetti di sogni e fame. E le sue mille storie, raccontate da scrittori diversi: da chi se n’è andato senza mai lasciarla, chi non l’ha mai tradita, chi le ha restituito la vita in ogni pagina o le ha ricambiato i colori e la memoria. Così, da quando scrivere di lei è stato un atto d’amore. Perché la Sicilia sa far male, come un abbraccio che toglie il fiato. E non si smette mai di parlarne, di volerne dire di fatti, di ricordi, di storie, di verità velate, taciute, rimandate a dimenticarsi. O, semplicemente, girate in mille fotogrammi da non cancellare. Ecco che il cinema ne fa una star, i registi la inquadrano intrigante e setosa, la televisione le offre sceneggiature da vedere e rivedere e gli attori si fanno suoi figli quasi a darle parola fidata, a non tradirne la pronuncia né i silenzi. La fiction e i film ambientati in Sicilia sono arrivati nelle case di tutti, seguiti con sempre maggiore interesse. Ci hanno guidati tra gli scorci più belli, nelle distese di mare, tra i vicoli più intimi, nella campagna più assolata, nelle case senza difese, con le porte di legno tenute in piedi da muri bianchi di calce e rampicanti. Ci hanno insegnato una lingua stretta e tortuosa dalla pronuncia improbabile, ci hanno fatto largo nelle tradizioni, colori, tavole imbandite e serate in verande di vento d’Africa. Abbiamo abitato le stanze, i palazzi delle sue grandi città, l’eredità scomoda di una legge sbagliata, la speranza mai smorta di tornare a nascere. Siamo scesi negli abissi dei suoi fatti scomodi, abbiamo assaporato le luci dell’alba di pescatori al rientro, di lampare scortate in porti di sbarchi e mattanze, i cortili bianchi di sole dai fiori svogliati e i panni stesi allo scirocco rabbioso di sabbia. Tra scacciapensieri e giochi di strada ci siamo persi nelle storie romantiche di tempi andati e di ritorni nostalgici. Abbiamo abbracciato madri in ginocchio sul ciglio di strade sterrate, in grembiuli neri e ciocche di vento sugli occhi, arsi di lacrime e paure. Abbiamo ricordato storie antiche di nonni dalle coppole scure e le guance scavate, dalle mani spaccate ma la coscienza illesa. Abbiamo riso, nell’ironia sottesa e nella leggerezza zuccherata su tavolini di granite e mandorle. Ci siamo addormentati sul finale di un bacio rubato e su note d’oriente e mandolini. La Sicilia di moviole e ciak conserva il garbo e l’educazione di altri tempi, nel rispetto di sempre, quello che non si recita ma si tramanda senza copione, dichiarando fede alle vicende di ognuno. In ogni parte d’Italia, senza eccezioni, la sigla iniziale tiene incollati fino all’ultimo titolo di coda, spegnendo anche la mediocrità di chi del meridione ne ha fatto un nemico. Abbassando le voci scordate di quella fetta d’Italia che non vuol cantare insieme per timore di scendere dal piedistallo di una regalità senza diademi: un Nord che non ha mai conosciuto la scorza, il garbuglio dei nodi che stringono al cuore ad ogni sussulto del cielo, ma ripagano di zagare odorose e risvegli d’orgoglio. Perché la Sicilia è questo: un mondo intero in un’isola in scena, sui teatri in pietra di vecchi gradoni, l’Etna in sfondo e la Storia ad applaudire.

LA RISERVA INDIANA

DI IRENE GIRONI CARNEVALE

La vicenda dei capigruppo uomini trasformati in capigruppo donne del PD è surreale e anche un po’ grottesca. Alla pochezza complessiva, umana e politica, di Marcucci, si accompagna un silenzio imbarazzante dell’intera componente “femminile” del PD che in queste ore sembra stia, come le batterie di una gara di atletica, ai blocchi di partenza, pronta a partire a razzo per andare ad occupare la postazione previa concessione. Senza discussione, senza confronti, come se si fosse figurine dei calciatori da scambiare all’intervallo. Questa è secondo me la cosa più grave, il silenzio della parte in causa, chiamata dal neo segretario ad un nuovo ruolo di protagonismo. Simbolico perché tutto il dibattito precedente sull’esiguità delle “cariche” politiche delle donne del PD è stato ancora più surreale e ha avuto l’unico pregio di svelare il segreto di Pulcinella e cioè che i partiti, tutti quanti, sono ancora il campo da gioco maschile per eccellenza e non basta e non basterà mai mettere una donna in un posto rappresentativo per pareggiare i conti. E poi perché pareggiare, perché inseguire un risultato che dovrebbe essere nell’ordine naturale delle cose? Perché continuare a sottolineare la straordinarietà di una donna a capo di qualcosa? Per dirigere bisogna essere all’altezza e il nostro Paese è pieno di imbecilli ambosessi senza speranze a posti di comando importanti; evito di fare nomi, ma penso che ciascuno di noi abbia un’idea chiara in proposito.
Il problema è sempre stato e, temo, sempre sarà quello di pensare le donne come facenti parte di una riserva indiana dove si è partecipi, ma sorvegliate, “protette” dalle normali fisiologiche dinamiche dei ruoli e si viene tirate fuori come il vestito buono della domenica per dimostrare che lo si possiede e che non si è da meno degli altri. E questo riguarda tutti i partiti, dalle destre, dove le donne leghiste hanno comunque bisogno del placet del felpato onnipresente e le forziste sembrano tutte ancelle devote del vecchio capocomico, al sapiente piedistallo tutto maschile che sorregge la sola leader di partito in Italia, bandierina controcorrente anche quella. Nell’opposto schieramento la storia è nota e non dissimile in ogni formazione, anche in quelle dove nel secolo scorso le donne hanno fatto molto per la crescita di un discorso di parità che comunque è stato mal recepito e mal sviluppato, visti i miseri risultati di oggi. Penso anche che non si cavi un ragno dal buco perché non solo le donne non sono educate al confronto con gli uomini, veri artisti consumati dell’asso piglia tutto, ma che invece di cambiare i numeri e le quote è proprio il metodo che si doveva cambiare, le regole d’ingaggio, le dinamiche perché la politica è nata come “cosa da uomini” e lo è stata sempre, fino ai giorni nostri, senza neanche provare a scardinare minimamente il meccanismo incancrenito e a totale vantaggio maschile in maniera automatica. Le donne hanno approcci diversi perché ragionano in maniera diversa, hanno una visione del mondo e delle cose più ampia, da sempre, perché i loro ruoli le ha costrette ad averla dovendo da millenni giocare su più tavoli.
Non si cambia la politica con i numeri e nemmeno con parole declinate al femminile, ma con la testa, con il contributo di tutti e non bastano “passi indietro” di livello asilo d’infanzia (‘me ne vado, ma al mio posto ci metto l’amichetta mia, pappero!’) ma con la volontà di un cambiamento radicale che non si può ottenere in una settimana. E se non ci siamo riuscite noi della mia generazione, dopo anni di urli, lotte e inutili dimostrazioni di capacità, temo che non sarà né facile né breve questo cammino che sembra infinito.

STORIA DI DISSERVIZIO SANITARIO IN SARDEGNA. O COVID-19 O NIENTE.

di ANTONELLA SODDU

La storia che vi raccontiamo è quella di una donna sarda di 50 anni a cui circa tre anni fa è stata riscontrata la “Arterite di Takayasu” – una malattia rara che causa infiammazione delle grandi arterie ( aorta i suoi rami e le grandi arterie polmonari ). Dal giorno della prima diagnosi certificata della malattia, la signora è sotto controllo medico specialistico. Controlli che sono diminuiti in fase di piena emergenza covid-19 causa le difficoltà di accesso alle cure ospedaliere e a quelle del SSR – Servizio Sanitario Regionale. Un mese fa circa, la signora è riuscita ad effettuare consulenza cardiologica e Angio Tac coronarica. Il referto di quest’ultima è evidenziato un peggioramento importante della sua patologia con “occlusione dell’arteria mesenterica superiore e delle arterie renali”. La signora rischia un infarto intestinale. L’occlusione acuta richiede urgente consulenza in chirurgia vascolare e in alcuni casi intervento chirurgico. Considerata l’urgenza, la signora ha provato in tutti i modi a prenotare una consulenza chirurgica attraverso il sistema CUP della Regione Sardegna. Più tentativi andati a vuoto anche chiamando negli orari indicati la risposta è all’infinito – “Per parlare con un operatore tenere a portato di mano tessera sanitaria e impegnativa. Gli operatori sono tutti momentaneamente occupati, si prega di richiamare”.La signora non si è arresa; ha prima chiamato presso una struttura privata in convenzione. Le è stato spiegato che al momento tutte le prestazioni sono sospese causa mancato rinnovo da parte della Regione della Convenzione. Sono comunque erogabile le prestazione a pagamento, ivi compresa la consulenza con il chirurgo cardio-vascolare. La Signora per sicurezza ha prenotato la visita garantendo che se nel frattempo fosse riuscita a contattare il CUP avrebbe poi chiamato per disdire. Ha cosi effettuato altri tentativi al CUP; falliti. Ha poi provato a contattare direttamente gli ambulatori specifici degli ospedali cittadini. E’ riuscita a parlare con un operatore – molto gentile e disponibile – di un noto ospedale ( peraltro lo stesso dove le fu riscontrata la prima volta la arterite di Takayasu ) dell’ hinterland cagliaritano. Ha spiegato la situazione urgente e l’operatore consultatosi con i responsabili del reparto, ha consigliato di recarsi subito al Pronto soccorso – unico sistema di passaggio poi al reparto per una consulenza – portando con se tutta la documentazione medica in possesso e raccomandandosi di non rimandare oltre.La sera stessa la signora per sua sfortuna comincia ad avere forti dolori addominali e al braccio fino a aver la sensazione di assenza d’aria. Cerca in tutti i modi di restare tranquilla per non peggiorare la situazione. I dolori vanno e vengono e si estendono agli arti inferiori. Il giorno seguente decide di chiamare il 118. Viene trasportato in ospedale. Dalle 10 del mattino attende dentro l’ambulanza che le sia effettuato il tampone. Le viene effettuato intorno alle 14 e il risultato negativo comunicato intorno le 16.30. A questo punto ha il libero accesso al Pronto Soccorso ove dopo il triage deve attendere per effettuare i prelievi e un elettrocardiogramma ( prassi ). Intorno alle 19 le vengono comunicati i referti dei prelievi e dell’ECG. Le consigliano una consulenza con il Chirurgo Cardio – Vascolare prima possibile. Le fanno anche l’impegnativa per la visita ma la signora l’impegnativa per la visita la ha già in quanto il medico di base alla lettura del referto della ANGIO-TAC ha spiegato bene alla signora l’urgenza di effettuare la consulenza in considerazione della delicatezza del referto.La Signora è tornata a casa. Tra pochi giorni si recherà a fare la consulenza presso un clinica privata dell’hinterland cagliaritano. Consulenza a pagamento, ovviamente, perché la RAS non ha ancora rinnovato le convenzioni scadute, perché in ospedale se non hai il COVID-19 sembra non si possa accedere – forse per non occupare il letti dei reparti, o per quale altro dannato motivo?“La Repubblica tutela la salute come fondamentale diritto dell’individuo …”; afferma cosi la prima parte dell’ Art. 32 della Costituzione, andando a definire espressamente la “salute” come un diritto fondamentale dell’individuo che deve esser garantito a tutti. Ciascun cittadino ha diritto a esser curato ed ogni malato deve esser considerato legittimo utente di un pubblico servizio, cui ha pieno e incondizionato diritto. Abbiamo voluto ancora una volta ricordare i dettati costituzionali soprattutto oggi che ancora ci troviamo in piena emergenza sanitaria da Covid.19 e purtroppo dobbiamo prendere atto del dato di fatto che molti cittadini affetti da altre patologie croniche anche di grave rilevanza riscontrano difficoltà di accesso alle cure. Tutto ciò non è più tollerabile.

ABBRACCIATI

di LORENZO DE DONNO

Ero in coda per entrare in pescheria. La strada, di norma trafficatissima, era interrotta da un cantiere. L’area che partiva dall’incrocio precedente, da dove veniva deviato il flusso veicolare verso percorsi alternativi, e fino al punto in cui iniziavano i lavori, era diventata un’improvvisata isola pedonale. Di tanto in tanto, poi, gli escavatori si fermavano, per cui cessava il loro rumore assordante e la strada diventava anche silenziosa in maniera surreale. Un silenzio relativo, che definisco tale solo per semplificare, perché, in realtà, si potevano udire gli ordini perentori impartiti dai tecnici del cantiere, il fruscio di fondo del traffico circostante e il vocio delle persone che, ordinate in una lunga serpentina, erano anche loro in coda, sul marciapiede opposto, per entrare in un ufficio postale. 

Mi sono voltato, giusto in tempo per cogliere l’attimo. Una ragazza, scesa da un’utilitaria parcheggiata poco lontano, ha alzato il passo, per poi correre verso un uomo che era proprio al centro della strada, nei pressi della rete che circondava il cantiere. L’uomo si è voltato, l’ha riconosciuta, e le ha aperto immediatamente le braccia, con un gesto accogliente che mi sembrato inevitabile e istintivo. Si sono stretti come se non si vedessero da una vita. Lui sorrideva, un po’ imbarazzato, mentre le accarezzava le spalle affettuosamente. La ragazza, invece, si era appesa letteralmente al collo dell’uomo e sembrava non volersene più staccare. Un lunghissimo abbraccio di un minuto, forse due, parlandosi fitto fitto, al quale ho assistito, insieme alle altre persone in attesa da una parte e dall’altra della strada, come se fosse la scena madre di un film, quella nella quale i due protagonisti, separati dagli eventi, finalmente si ritrovano. Era plausibile qualsiasi ipotesi. Che uno dei due avesse subito un fatto estremamente doloroso, per esempio, o che fosse un incontro fra vecchi amici che si erano persi di vista o che, comunque, avessero vissuto una separazione non voluta e determinata da fatti avversi. Non lo saprò mai! In fondo, per me – che amo catturare i momenti – conoscere il reale il motivo di quell’abbraccio diventa davvero un dettaglio ininfluente.

Poi lei ha sciolto la stretta e, da quel momento, hanno iniziato a conversare a bassa voce, entrambi con gli occhi che sorridevano, rimanendo sempre al centro della strada e recuperando anche un minimo di distanza interpersonale. Ecco, a quel punto, se qualcuno avesse gridato: “Ok! buona la prima!” e fosse apparsa una troupe, rimasta fino ad allora mimetizzata fra le strutture mobili del cantiere, nessuno si sarebbe davvero meravigliato, tanto era risultata efficace e convincente quella scena.

In quel momento, non prima, ho realizzato che quello era il primo abbraccio “pubblico”, che si potesse definire tale, al quale assistevo da marzo dello scorso anno. E devo confessare che non ho avuto quella reazione di disappunto che è diventata, ormai, un riflesso condizionato quando mi trovo a constatare il mancato rispetto delle distanze. Anzi, in tutta la fase dell’incontro fra le due persone, ho provato una sorta di inconfessabile e sotterranea commozione. Colpa mia non averla ricacciata e aver consentito che si manifestasse.

Un abbraccio normale (come ne potevi contare a decine, a centinaia, in ogni stazione di treni o di pullman, nei parchi o in riva al mare oppure, ancora, davanti alle scuole o sotto i portoni dei condomini), che diviene “spettacolare” ci restituisce la condizione che stiamo vivendo, ormai da troppo tempo. Se sono i gesti a dare concretezza e sfogo ai pensieri, e i pensieri più nobili sono quelli verso i nostri simili, senza i gesti siamo tutti più sterili, condannati dalla pandemia a una sorta di doloroso stato larvale, anche dei sentimenti.

SALUTE!

di MASSIMO WERTMULLER

Leggo di deliri di disobbedienze civili alle norme di sicurezza, e soprattutto vedo manifestazioni di piazza ‘no vax’ e ‘no lockdown’, con susseguenti rabbie, poi, se richiudono tutto (!!!), che potrebbero andare oltre lo schifo, non per un fatto personale ma per relazione al pensiero di tutti quelli che ci hanno lasciato per covid, soprattutto i cari. Assisto a un “confronto” fatto di insulti che partono subito alle prime critiche, invece che fatto di civiltà e costruttività. Vedo insomma, ormai, che il tema covid è riuscito dove riuscì la politica di allora con le idee, a dividere tra buoni e cattivi, tra i giusti e gli sbagliati, tra i nuovi guelfi e i nuovi ghibellini, tra chi ha capito tutto prima e meglio di tutti gli altri, prima persino della scienza, quando l’unica cosa saggia da fare sarebbe vaccinarsi, perché, lo capirebbe anche un muro, se faccio circolare il virus allo scopo di una immunità di gregge, un conto è farlo sapendo che non morirà nessuno, da solo e terrorizzato in un ospedale , un conto è farlo sacrificando intere generazioni. Vaccinarsi è giusto anche di fronte all’evidenza inevitabile che qualcuno ci guadagnerà sopra. Ma appunto, allora, partirei da questa ultima considerazione per l’umile pensiero che mi ha mosso a questo post. Prendo atto di tutta questa indignazione, di tutto questo ardore, tutte queste energie anche sbagliate, sprecate, a discutere inutilmente di virus, e noto che tutto questo protestare, tutta questa ira non viene usata per la ripresa dell’attività degli altiforni all’Arcelor Mittal di Taranto. Cioè la ripresa di una morte lenta inferta da troppo tempo su una città bellissima e su un popolo innocente. Vergogna. La politica seria dovrebbe cominciare da qui, da Taranto, come simbolo di un tema più generale. Questo capitalismo, cioè, del consumismo. Una grande sfida da vincere, quella della lotta tra l’interesse, persino il lavoro e la salute, nostra, del pianeta e di tutti i suoi abitanti. Tante altre indignazioni, proteste, polemichette, come quelle che invitano a non stare attenti di fronte a questo virus che ancora uccide, non servono, sono niente, anzi dannose, di fronte a un tema come questo. Preferirei vedere manifestare per strada su questo tema.

COMMEMORANDA

di TITTI DE SIMEIS

Oggi è la Giornata Mondiale dell’Acqua. Ieri è stata la Giornata Mondiale della Poesia. L’altro ieri è stata quella della Felicità. Per farla breve, ogni giorno ce n’è una: viviamo di giornate mondiali, di date da condividere sui social come anniversari della Storia che siglano la memoria delle nostre pagine. Non possiamo fare a meno di postare foto, frasi ad effetto o video in cui dimostrare quanto siamo attenti a questi imperdibili appuntamenti, quanto sia spessa la nostra cultura e delicata la nostra attenzione. Per poi mettere in colonna, come in un’addizione da scolaretti, i conseguenti ‘like’ quali medaglie al valore. Ci rendiamo conto in cosa viviamo? Abbiamo così tanta necessità di risposte doverose a ricorrenze senza significato, senza un valore che sia autentico? Si tratta di celebrazioni improvvisate il cui fine dovrebbe (e dico ‘dovrebbe’) essere la sensibilizzazione nei confronti del tema abbracciato, ma il risultato altro non è che un susseguirsi di bacheche riempite di commenti e protagonismi da finte approvazioni, anch’esse finalizzate al mettersi, banalmente, in mostra. Al sentirsi coesi nel raggiungimento di un obiettivo, al perseguimento di un ideale, di un progetto da portare avanti tutti insieme, ma di cui, la maggior parte delle volte, non conoscevamo nemmeno l’esistenza. Poi, ‘passata la festa’ e la congestione dei nostri profili, tutto torna all’indifferenza di sempre nei confronti delle tematiche messe in luce solo qualche minuto prima, sostituite da un selfie su ‘sfondo piatto di lasagne’ o alternativi buonismi di turno. Ecco cosa stiamo diventando. Una compagine di singole identità che si scimmiottano a vicenda e fanno a gara a chi ci riesce meglio. Proprio così. Un altra cosa e concludo: pare sia in arrivo la Giornata Mondiale del Buon Senso. Ma, ahimè, stando alle statistiche e all’evidenza, è prevista un’infinitamente scarsa partecipazione.

SEX WORKING

di TITTI DE SIMEIS

E’ di questi giorni un articolo su una professione ‘nuova’ eppure vecchia come il mondo. Protagoniste ragazze di appena vent’anni che, per mantenersi agli studi, guadagnano denaro prostituendosi. Anzi, no. A loro dire la prostituzione sarebbe altro. Si tratterebbe di ‘sex working‘ e di una nuova figura la ‘sugar baby‘. Secondo queste giovani donne è un lavoro come tanti altri, un lavoro che fa guadagnare un bel po’ di soldi senza mai scendere in strada: ‘Il marciapiede non lo vediamo neanche da lontano, ci mancherebbe. In strada ci sono le vittime della tratta, noi facciamo tutta un’altra cosa – chiariscono subito – Ci iscriviamo sui siti di incontri e ci proponiamo come sugar baby. Vendiamo esperienze e non c’è disparità di potere perché noi abbiamo la giovinezza, loro il denaro’. L’anteprima avviene sul web, la conclusione invece, nella realtà. Una compravendita, altroché, e come da copione. L’unica differenza sta nel non abitare la strada, nel rintanarsi in altri luoghi altrettanto pericolosi, non lontani da rischi e paura. Senza che nessuno conosca la verità: tutto avviene completamente di nascosto, con un’accesa possibilità di essere in situazioni di emergenza e non poter chiedere aiuto o, nei casi più critici, sporgere denuncia. Il loro lavoro si svolge in trasferta, in via riservata e le ragazze si sottopongono anche a giochi azzardati senza alcuna ‘rete di sicurezza’, senza qualcuno che le protegga e ne garantisca l’incolumità, almeno quella fisica. La bellezza è un requisito fondamentale, e non solo quella del corpo: occorre attrezzarsi di buon umore a tutti i costi perché le richieste includono anche una bella dose di allegria. Il cliente (lo ‘sugar daddy’) a volte, estende il risarcimento economico provvedendo all’acquisto di libri universitari, al pagamento di bollette o spendendosi in regalie di diverso genere. Uno pseudo legame che esula da ogni coinvolgimento, da qualsiasi forma di affettività. Questo lascia alle ragazze la libertà di ‘scegliere’, di decidere chi e come, di non accettare la compagnia di chiunque. E, a detta loro, le rende padrone di sé e della situazione, procura un senso di forza, le fa sentire adulte e, addirittura, permette loro di ‘crescere’. Di sentirsi padrone di sé. Di riscattarsi da ogni insicurezza. Che quadro spaventoso. Uno scenario che mette tristezza e lascia passare la vera luce che scalda il mondo dei nostri figli. E noi, inconsapevoli ed all’oscuro di tutto, pensiamo che loro siano felici, sereni della vita che abbiamo costruito, che abbiamo progettato e nella quale li abbiamo accolti. Li crediamo al sicuro, nella stanza accanto alla nostra e davanti al computer a preparare un’esame quando, invece, sono in contatto con un mondo in cui non oseremmo nemmeno immaginarli. Perché loro non si accontentano, sono smaniosi di nuove ‘emozioni’, di rabboccare continuamente il contenitore segreto delle loro aspettative, hanno bisogno di sognare in grande e di avere tra le mani molto denaro, una cifra che permetta altri traguardi, meno sacrifici dei nostri, maggiori possibilità. Vogliono guadagnare tanto, subito e ad ogni costo ed avere molte chances e senza rinunce. Ma anche, e purtroppo, perdendo il valore incalcolabile della loro vita spoglia di ogni contaminazione, dell’indecenza del compromesso, dello squallore di una strada scelta per rivalsa nell’illusione di migliorare distruggendosi, al contrario, irrimediabilmente. Con la complicità torbida di chi permette tutto questo, di chi sfrutta innocenti illusioni ed intaccabili speranze. Nell’evidenza di essersi persi per sempre nel buio delle loro fragilità, nel boato insopportabile del loro sgomento di fronte al risveglio più desolato che mai. Poveri ragazzi, costretti ad avvicinarsi ad imprecisatecertezze per colmare vuoti straripanti di insignificanza. Non chiediamo loro spiegazioni. Non cerchiamo di punirli per colpe che non hanno. E non illudiamoci di irresponsabilità. Non è così. Siamo colpevoli, e quanto. Di leggerezza, di cattivi esempi, assenza, superficialità, immaturità. Essere genitori non porta, necessariamente, saggezza né consapevolezza di esserlo: spesso lo si diventa per caso o senza cognizione del ruolo che ci aspetta, non si è pronti, non si è all’altezza, si vorrebbe tornare indietro e cancellare tutto. E così, ci si chiude, rifiutando di assolvere al compito di far crescere, educare, metterci da parte per aprire la strada a chi ci chiede la mano con i suoi mille perché, a chi ci è accanto, ci imita, ci ammira, ci regala il meglio di sé per essere amato. Incondizionatamente. Nel futuro di ogni figlio c’è una promessa: la nostra. Nel fallimento del suo futuro c’è la nostra infedeltà: la resa peggiore dei suoi sogni.