LE RAGIONI DEL MIO VOTO

DI IRENE GIRONI CARNEVALE

Ho cercato di tenermi fuori dal dibattito sul referendum, avendo maturato da tempo la mia decisione basata sull’analisi del testo della Costituzione comparato con quello modificato e dopo aver valutato l’impatto della riforma sull’andamento politico del Paese, soprattutto alla luce di una legge elettorale a dir poco controversa. Sono sempre stata convinta che il voto sia un enorme, imprescindibile diritto e l’ho sempre esercitato, anche in momenti in cui ne avrei fatto volentieri a meno. E’ per me la più alta espressione della democrazia, della consapevolezza personale e dell’appartenenza ad una società per quanto possibile civile. Continuo a pensare che si debba votare per il referendum, per i contenuti e ciò che rappresentano, per quello che vale la nostra Costituzione con la sua storia magnifica e terribile e per quello che noi cittadini vogliamo sia il nostro Paese. Non andrò a votare per altre motivazione, non cadrò nella trappola degli arzigogoli pseudo personalistici: un governo si manda a casa con un altro voto e sarebbe ora che gli italiani votassero secondo coscienza e conoscenza, qualunque altro tipo di voto, di pancia, di testa, di altre parti del corpo non significa un bel niente. Andrò a votare pensando, come tutte le volte che ho votato, che l’indomani il mio Paese sarà ancora qui, con tanta strada da fare ancora per raggiungere un livello di civiltà e partecipazione che non abbiamo mai avuto, ma solo sfiorato in anni lontani quando esisteva il senso di appartenenza a qualcosa, quando le idee circolavano e circolavano benissimo anche senza internet e smartphone. E tutta quella strada da fare siamo tutti noi a doverla indicare, costruire, percorrere. Io penso, nel mio piccolo, di aver sempre fatto la mia parte, di aver sempre preso posizione, anche e soprattutto quando non era “conveniente”, di continuare a vivere cercando di essere parte del tutto e tentando, come posso, di far sentire la mia voce. Come diceva Gramsci “Odio gli indifferenti”, li ho sempre odiati: chi non sceglie non vive, vegeta come i parassiti. Non credo che interessi a molti come voterò, ma non ho difficoltà a dirlo: lo dico ora e poi chiudo la questione perché questa campagna elettorale è stata una delle più brutte manifestazioni subumane alla quale ho assistito, da qualunque parte la si guardi. Voterò NO perché credo che le modifiche proposte preparino un quadro politico di potere che non condivido. Voterò NO perché per risparmiare sui costi della politica VERAMENTE basta un decreto. Voterò NO perché in coscienza non mi pare che questa riforma sia stata fatta e approvata dalla maggioranza dei partiti presenti in Parlamento. Voterò NO perché ho ancora la speranza o l’illusione che se vince il NO dal 5 Dicembre forse una parte della moltitudine inerte potrà ancora darsi una mossa per cercare di costruire un’alternativa a parolai e rubagalline che trattano l’Italia come un mercatino dell’usato di infima categoria. Voterò NO perché così ho deciso e non mi interessa se insieme a me voterà gente che non stimo e vorrei vedere cancellata dalla faccia di questo Paese: il voto è personale, unico e irrinunciabile, maturato secondo le proprie convinzioni.

al621-1024x685.jpg

SOVRANAMENTE. NO

 

DI TITTI DE SIMEIS

 

C’era una volta l’Italia: era il giugno del 1946, si stava tornando a camminare dopo una lunghissima paralisi sociale, iniziavano a riaprirsi le finestre, si riprendeva a pensare al domani. Stanchi, affranti, orfani, invalidi, invecchiati, deportati e poveri. Più che mai. Senza casa, famiglia, e lavoro. Vittime di una strategia folle, di un potere malato al comando sul mondo. Vittime della storia protagonista dell’assurdo, dell’impensabile. Succubi di una violenza senza confini, in un’Europa accartocciata e pestata, annientata. Si stava riaprendo il cielo su una terra bruciata e arida di ogni respiro. Chi era rimasto incolume aveva continuato a costruire dentro di sé, in gran segreto, al lume di un mozzico di candela o sui quaderni nascosti nelle prigioni di filo spinato, il credo della rinascita. L’esercito dei buoni, dietro i contorni di montagne complici, aveva liberato ogni uomo dall’alleato nemico, dalle sbarre di una giustizia spenta e dalla fame di una giustizia vera. Finalmente. Uomini e donne riempivano le piazze e le strade brulicavano di libertà. Senza più condizione, senza più paura. Il nostro Paese aveva urgenza di vivere, di nuovo. Un Paese disperso, a brandelli, avvelenato da una storia assassina.

In quell’estate si andava preparando un nuovo principio, si stava imbastendo la trama di un nuovo racconto, di un libro che avrebbe custodito ed ‘educato’ il nostro futuro. Roma in quei giorni era inquieta, ancora tremante ed insicura, ma forte e decisa. E proprio Roma, nel pieno della sua ‘impazienza’, il 25 giugno di quell’anno accolse la prima seduta dell’Assemblea Costituente: un’assemblea eletta da milioni di italiani e di italiane, alla quale era assegnato il compito di scrivere la nuova Costituzione venuta poi, alla luce, nel dicembre del 1947. Da ogni parte d’Italia si incontravano figure eccellenti della giurisprudenza, della politica e della cultura nel suo significato più alto. Nomi che avrebbero segnato le pagine più emerite della nostra storia. Fra questi, quello di una donna che, come poche altre, per la prima volta entrava in un luogo, fino ad allora, di appannaggio esclusivo degli uomini. Nilde Iotti racconta, così, quei giorni: “Far parte dell’Assemblea Costituente era un privilegio per noi giovani di allora: in essa sedevano uomini di grande prestigio e di forti riferimenti per chi, come noi, era all’inizio del suo percorso nella Repubblica Italiana nascente. Fra questi, Togliatti, Einaudi, Nenni, Orlando, Nitti, Benedetto Croce. Avevamo tutti la sensazione di entrare in un luogo estremamente importante”. Come lei, molti di coloro che vissero in prima persona quel periodo, lo ricordano carico di forti emozioni e di un affascinante senso di ‘solennità’. Unirsi per scrivere un testo portatore di aspettative e di cambiamenti sociali, giuridici e politici, conferiva ad ognuno un carico di responsabilità enorme. Motivati da principi come unione, pacificazione e concordia, tutti i partiti, piccoli e grandi si impegnavano a scrivere, insieme, la nuova legge della nascente Repubblica. I deputati eletti alla Costituente erano quasi tutti completamente slegati dal potere: era gente libera, indipendente e ‘nuova’. Uomini semplici, alcuni dei quali provenienti dalla provincia, persone umili, unite dal rispetto per il Paese, per le umiliazioni subite e dal bisogno urgente di un riscatto morale e sociale. Guadagnavano pochissimo, alcuni di loro non riuscivano a pagarsi da dormire, costretti a scegliere tra il pasto o una camera d’albergo: la diaria era di 1000 lire al giorno e, considerando che un pasto ne costava 500, i conti son presto fatti. Eppure erano fortemente uniti nella volontà, nel bisogno di restituire l’Italia alla sua dignità, di ripagarla di ogni sacrificio sostenuto e di tutte le vite perse per la libertà di chi era sopravvissuto. Nell’Assemblea si distinguevano coloro che avevano attraversato, con l’Italia stessa, le difficoltà della guerra e che miravano ad istituire una ‘carta’ per garantire al Paese una rinascita ed una ripresa giusta, equa per tutti. I Padri Costituenti dimostravano, quindi, riguardo del passato e dell’avvenire, da costruire nuovo per tutti, ricchi o poveri, indistintamente; le donne della Costituente erano impegnate a scardinare le ingiustizie che il regime fascista aveva compiuto contro il genere femminile, auspicando una rivoluzione ed una conquista di spazi sempre più imparziali. Era il momento della ricostruzione materiale e morale di nuove basi per lo Stato italiano. Uno Stato che rinasceva al completo servizio dei cittadini. In un’intervista di qualche anno fa il presidente Oscar Luigi Scalfaro interpreta, semplicemente, dei concetti chiave che guidano alla comprensione di principi fondamentali allora, così come nella nostra attualità: “ Il popolo italiano non aveva casa. Giuridicamente, non aveva casa. La logica dell’Assemblea Costituente, della Costituzione era che un popolo non può vivere se manca una piattaforma che segni i confini dei rapporti di ciascuno, che indichi una ‘casa’ costituzionale, giuridica, amministrativa dove il popolo possa sentirsi sicuro l’uno dell’altro. Nella Costituzione si parla, per la prima volta di ‘cittadini’ e non di ‘sudditi’ come si scriveva nello Statuto Albertino (modificato, negli anni, dal Regime Fascista), e questo elemento rappresenta un rovesciamento radicale del rapporto fra i cittadini e lo Stato all’interno della Repubblica. Non esiste lo Stato senza l’uomo: al primo posto c’è l’uomo con i suoi diritti, con il suo patrimonio di dignità. L’uomo mette al mondo lo Stato che altro non è che il popolo giuridicamente organizzato con diritti, doveri, responsabilità. Lo Stato ha un solo compito: lavorare, operare per l’uomo, il cittadino, il popolo. Questa armonia ‘dal popolo allo Stato, dallo Stato’ all’uomo, era il ‘no’ a qualsiasi dittatura”. Ecco. Erano questi i cardini della cultura attraverso la quale prendeva vita la Politica italiana avvalendosi del sostegno della gente comune che, in un contesto così, si sentiva ben rappresentata e sostenuta, guidata e difesa nella giustizia.

Il cammino da allora in poi, purtroppo, è andato a ritroso, lentamente ed incoscientemente. Ed oggi, stiamo rischiando di distruggere, per sempre, tutto questo. Siamo al punto di non ritorno di una vergogna senza ritegno, siamo all’imbocco di un potere abusato ed abusivo. Cosa significhi è presto detto, le risposte le abbiamo già nelle promesse, negli incentivi, nella corruzione in cambio di un voto: votare è un diritto e un dovere, non una compravendita. Ogni azione che violi questa libertà è da ritenersi illegale e contro la nostra Democrazia, nata dai sacrifici, dalla passione, dalla volontà, dalla rinuncia, dallo studio, dalla forza, dalla serietà, dal rispetto, dalla lotta di un Paese che ha creduto in sé e in chi ne ha ricostruito, testardamente, il futuro. Quel futuro eravamo noi. Il nostro è fuori fuoco, non si coniuga, ha perso il tempo del domani. Non per tutti, però: i pochi che possono permetterselo sono gli stessi che ce lo oscurano, che ci privano delle sue chiavi, che prendono in giro l’intelligenza di chi soccombe per necessità, laddove la ricchezza tiene il gioco ed il potere la alimenta, gli stessi che si burlano di un popolo che piange a denti stretti, per non perdere il poco che gli resta. Quanti fra noi vorrebbero tornare alla Liberazione: dall’inciviltà e falsità politica, dall’apatia, dall’incuria degli ideali, dall’eccidio dei valori, dalla libertà ammanettata, dal tradimento di ogni rispetto umano. Ogni articolo della nostra Costituzione è un testamento d’onore, è una dichiarazione di onestà: leggiamola attentamente. Facciamola nostra. Solo così potremo amarla e, quindi, difenderla. E’ un libro ‘immediato’, comprensibile a tutti, scritto in un linguaggio degno dell’attenzione di illustri linguisti per la ‘limpidezza e accessibilità delle norme costituzionali’ – come afferma Tullio De Mauro – elemento, questo, fondamentale per ‘arrivare’ a chiunque e per ‘dire’ senza intermediari, per aprire ogni strada alla chiarezza senza falsi sensi. Come deve essere. In quegli anni, quando la guerra aveva tolto le scarpe alla vita, gli uomini capirono ciò che era essenziale: convivere in una società capace di giustizia perché quello che era stato non tornasse, mai più.

E’ questa l’essenza del libro. In quegli articoli c’è la coscienza di una Storia che vuole, ancora, respiro. E, quella Storia non cambia e non può cambiare. Abbiamo bisogno di ritrovarci in quelle pagine, di considerare, a distanza di tanti anni, che quella legge è stata scritta per noi. In essa c’è tutta la forza che ci necessita per tornare a credere, per ricominciare a dire ‘no’. Per smettere di farci male e di farcene fare. Siamo avviliti. Non lo meritiamo. Siamo l’eredità di questo grande passato che, davvero, non lo merita.

15282017_10210263411054218_2133214961_n.jpg

RIFORMA PA. LA SENTENZA DELLA CONSULTA INNERVOSISCE RENZI.

 

DI ANTONELLA SODDU

La Parziale bocciatura, da parte della Consulta, della Riforma Madia (quella sulla pubblica amministrazione), ha scatenato l’ira dell’ego di Renzi. Una reazione arrogante che denota anche la poca considerazione che egli ha per quell’organo di garanzia costituito dalla Corte Costituzionale.

”Pensare che abbiamo fatto una legge delega con decreti legislativi, per rendere licenziabile un dipendente pubblico che non si comporta bene e la Corte Costituzionale ha detto che ” non c’è l’intesa, il decreto è illegittimo”. E poi mi dicono che non devo cambiare il titolo V. Siamo circondati da una burocrazia opprimente”.

Che cosa intende per “burocrazia opprimente”? Ci auguriamo che non abbia inteso dire che la causa della troppa burocrazia che attanaglia il paese sia, ora, la Consulta! No, perché a ben vedere le cose da questa sentenza emerge, invece, proprio l’incapacità, anche di questo Governo, di far leggi chiare e applicabili. Leggi che non ledano i diritti ma ne regolino il vivere sociale. La parziale bocciatura della Riforma si basa in poche parole sulla differenza tra parere è intesa tra regioni.

Pare che qui qualcuno abbia idee poco chiare del significato di burocrazia e di Corte Costituzionale. Quest’ultima, è chiamata a controllare la correttezza delle leggi attuate sui dettati della Costituzione.

Da ultimo mi vien da dire; “se la Consulta fosse chiamata a esprimere pare sulla riforma della scuola, della Sanità, del Jobs Act”, cosa verrebbe fuori?

lapr0822-0023-k6kf-u4324010484506113ld-656x492corriere-web-sezioni_414x310_m

LA CONSULTA HA PARZIALMENTE BOCCIATO LA RIFORMA MADIA SULLA PA.

di Rolando  Vivaldi

Ho letto commenti inconsulti sulla parziale bocciatura della riforma Madia.
In realtà la Corte Costituzionale nella sentenza 251 è stata di una correttezza ed equilibrio esemplare.
Ha detto una cosa che dovrebbe sempre valere, una cosa sacrosanta ed importante.
Quando si fanno riforme così ampie (e per tanti aspetti anche positive) come quella sulla riorganizzazione delle amministrazioni pubbliche, si coinvolgono tanti aspetti di natura centrale e locale perché l’amministrazione pubblica è il complesso di enti e di organizzazioni diffuse sul territorio.
Per verificare e per coordinare gli aspetti di competenza centrale e di competenza locale, che ci saranno anche se passa la riforma, serve dialogo e leale collaborazione dei soggetti coinvolti come parte inscindibile dei vari aspetti dello Stato.
Per questo – attualmente – c’è lo strumento dell’ intesa nella Conferenza Stato-Regioni, domani ci sarà qualcos’altro ma mi sembra comunque che l’esigenza sia giusta.
L’intesa mira a riunire Stato e Regioni ad un unico tavolo e raggiungere un accordo all’unanimità. Se non c’è l’unanimità siamo bloccati dalla “burocrazia” come dice qualcuno?
No ovviamente:quando un’intesa non è raggiunta entro trenta giorni il Governo può procedere con delibera motivata.
Lo dice l’articolo 3 comma 3 del dlgs 282/97 che mi risulta ancora in vigore.
E allora dov’è il punto?
E’ il solito: il pressappochismo, la superficialità, la convinzione di “io son io e voi non siete un c…o”.
Tra l’altro la Corte su un altro aspetto strategico, e cioè l’informatizzazione e la banda larga , pure contestati, ha dato ragione al Governo ritenendo tali aspetti , giustamente, competenza esclusiva della imprescindibile opera di interesse nazionale strategico.
E questi problemi di coordinamento non cambieranno nemmeno con la vittoria del SI al referendum perchè la Repubblica è complessa e l’esercizio del governo è faticoso.
Questa è la verità, quindi..calmati amico.

download-2

EQUIPARAZIONE TRATTAMENTI DEI CONSIGLIERI COMUNALI AGLI EMOLUMENTI DEL SINDACO CAPOLUOGO DI REGIONE.

di  Rolando  Vivaldi

O mi sfugge qualcosa o qualcosa è sfuggito.
Si tratta della disposizione dell’ articolo 122 della riforma Renzi-Boschi che equipara il trattamento dei consiglieri comunali agli emolumenti del sindaco del comune capoluogo di regione. Come noto un cavallo di battaglia dei sostenitori del SI al referendum contro gli sprechi della politica.  Dal sito #bastaunsi: “Contrariamente all’articolo che lo precede, il disposto dell’articolo 122 rappresenta un punto fondamentale della riforma costituzionale, che si inserisce nel filone dei risparmi che questa produce”.  Ieri ho postato sul Veneto ma oggi voglio provare a confrontarmi con la realtà toscana, Ho trovato i dati sul sito del Comune di Firenze e sul sito dei cinque Stelle delle Regione (il sito della Regione non riportava le cifre ma le disposizioni della legge regionale non facilmente interpretabili). Il compenso massimo lordo ritraibile da un consigliere regionale è di 11.100,00 euro circa (mica poco comunque..) dovuto all’indennità di carica (7.334,13) più un rimborso forfettario (esentasse art. 52 comma 1 lett b DPR 917/1986, Testo Unico delle Imposte sui Redditi) più una rimborso per le spese di spostamento dalla residenza al Consiglio Regionale nel limite della cifra prima detta. Quanto prende il Sindaco di Firenze? (i dati son 2015 perché l’anno 2016 non è finito ma proporzionando quelli dell’ indennità sono identici nei due anni). Il Sindaco di Firenze prende 87021,48 euro lorde di indennità di carica (cioè 7.251,79 euro al mese). L’indennità di carica anche qui è la medesima tra consiglieri regionali e sindaco del capoluogo….,  il SIndaco ha poi percepito circa 11.001,16 di rimborsi spese annui. Se, come penso , l’equiparazione riguarda solo l’indennità la sbandierata riduzione dei compensi rischia di essere un’altra beffa che ci propinano.

 

15170795_10209925278882212_5730734638552938590_n 15178945_10209925275482127_5271615591494488371_n 15181388_10209925276242146_8897098989597458232_n

PER UNA DONNA

 

DI TITTI DE SIMEIS

Voci colorate, guinzagli penzoloni e cellulari inquieti. Magliette accaldate, scollate su pantaloni sfrangiati, rombi di moto al semaforo e mani di donna sguaiate. Sulla schiena delle panchine messaggi d’amore sbiaditi da inverni spietati e, su selciati sabbiosi, impronte di una fretta che non lascia affanni. Non c’è caldo tra quei vicoli di fronde attempate, nel passeggio di un prete al vespro e il gioco di un bimbo su altalene di legno stinto. Dietro l’ombra di un albero un giovane amore litiga per l’inesperienza di un sorriso mancato, sui gradini della chiesa un venditore d’Africa parla ad un cellulare oltre mare. Un clacson impaziente del verde insegue una musica da una radio impossibile, un vecchio in bicicletta barcolla tra pensieri indicibili mentre guarda, seduta su una soglia di fiori, una donna in ritardo sui suoi sogni avvizziti.

Su un sedile, lontano, un uomo mi osserva. Capelli sciolti dal vento e giacca di lino, maniche piegate sui gomiti e occhiali da sole poggiati sulla fronte. Con stanchezza elegante, si passa un braccio sulle tempie. Continua a guardarmi e mi invita, con un gesto della mano, a sedermi vicino a lui.

Mi avvicino, curiosa. Mi chiede di mettermi accanto. Mi offre un ventaglio di carta di riso, lo accetto.

– Volevo conoscerla – mi dice.

– Perché? – gli chiedo.

– Per raccomandarle tutto questo –

– Cosa? – mi sento attratta dalle sue parole ma indecisa se restare. Mi soffermo sui suoi occhi, mi tranquillizzano.

– L’ho vista arrivare. Ho seguito ogni suo gesto: le sue mani sul suo taccuino, tra i fogli disordinati di vento, tra le cose nella sua borsa, tra i capelli, nel suo sguardo assente in cerca di pensieri da fermare, sui tasti del cellulare, tra le sue labbra che mordono l’impazienza. Lei scrive –

– Anche lei? – gli rispondo.

– Sì. Ma lei è una donna. Conosco quello che ha fermato in quelle righe, l’ho guardato insieme a lei, con la stessa calma e con la stessa dolcezza, con la
stessa voglia di scriverlo. Vede, vengo in questo posto da anni, in differenti periodi, in diverse stagioni, con gente che cambia ogni giorno o resta la stessa per molto tempo. Mi piace sedere qui e lasciare che la vita mi scorra affianco con tutto quello di cui è capace, bello o brutto che sia. Oggi ho visto lei, per la prima volta. Ho visto le sue mani aggiustarsi i capelli, scartare una caramella con la golosità di una bambina e giocherellare con la carta rossa, come accompagnando un viaggio nella sua mente che, non ha nemmeno idea, quanto mi piacerebbe conoscere. Io l’ho spiata come non ho fatto mai in vita mia. E vorrei che lei si vedesse, che lei sentisse le emozioni che mi ha trasmesso. Ho viaggiato in tanti posti, ho visto tante foglie cadere ai miei piedi, seduto su mille panchine in cento giardini, ho respirato la vita di così tante persone, ho chiamato per nome un racconto dopo l’altro, ho aspettato di essere pronto per una firma da lasciare a chi vorrà, dopo di me. Sono stato un ladro di vita da quando avevo vent’anni. La rubavo e la chiudevo tra le parole cui affidavo il compito di darle la libertà, la stessa che io le avevo tolto. Lo facevo con spietatezza. A volte, invece, la salvavo dall’inconoscibile e da un silenzio ingiusto. E’ stato il mio lavoro, il mio amore inseparabile, il mio tormento, la mia insonnia, la mia paura e il mio sesto senso, il mio digiuno e la mia insaziabile sete.

Ho avuto un solo cruccio: non riuscire a trovare nei miei occhi e nel mio animo la grandezza e la semplicità delle parole che solo una donna può avere dentro. La schiettezza disarmante, la sua verità vestita di grazia, la setosità cucita sulla tragedia e la ruvidità carezzevole.

Lei può, lei deve.

Quello che ha visto qui, quello che annoterà in altri luoghi, dovunque e comunque lei vorrà, quello che ancora non ha scritto e nessuno ha letto mai, quello che le preme sul cuore o le scalpita tra le dita. Non lasci che si perda nessuno di quegli accordi che le tolgono il sonno. Una donna che scrive è un cielo che si schiude, una mano che accoglie e un’altra che dona, un desiderio che immagina e un altro che vive di passione indefinibile e rara. Lo faccia, lo faccia per me –

Accenna un abbraccio discreto, un gesto nobile che scansa ogni volgarità.

Si alza e si copre la testa con un berretto di paglia.

– Qual è il suo nome? – lo fermo con voce indecisa.

– Glielo dico ma lei non lo scriva – e sorride, i pensieri chissà dove.

Mi confida il nome come fosse un segreto d’argento. Mi prende la mano, la bacia e va via.

Ho incontrato un poeta.

Ha scritto per me una poesia senza titolo. E mi ha strappato una promessa. Quella di donarla ad ogni donna. Per lui.

 

panchine.jpg

AMIANTO. 50 MILIONI PER LE PENSIONI DI INABILITÀ.

di Michele Piras

“Nel corso della notte la Commissione bilancio della Camera dei Deputati ha approvato il mio emendamento alla legge di stabilità, che riconosce la pensione di inabilità ai lavoratori esposti all’amianto, riaprendo i termini per le richieste all’INAIL per coloro che abbiano contratto malattie asbesto correlate e destinando 50 milioni di euro nel biennio (20 milioni per il 2017 e 30 milioni per il 2018).

Un risultato importante e un primo atto di giustizia per tante persone che si sono ammalate lavorando, il frutto di una battaglia partita dalla Sardegna centrale, dall’ex polo petrolchimico di Ottana, che ha visto protagonista centinaia di cittadini, l’associazione degli esposti all’amianto Aiea, la Cgil, le rappresentanze del nuorese in Consiglio regionale e quelle sarde alla Camera.

Un risultato che rivendico con orgoglio e che dimostra come la politica sia ancora in grado, mettendo in rete le energie e le intelligenze, di fare cose giuste. Un atto che rende parziale giustizia a chi ha tanto sofferto e ancora sta soffrendo, per i veleni che ha respirato e con i quali è entrato in contatto per causa di servizio.

62e207dd-d202-4e01-a734-22fee54c22d4_large

CAPO FRASCA. MANIFESTARE E’ UN DIRITTO. DELINQUERE E’ UN’ALTRA COSA.

Di  Antonsergio Belfiori
Le efferate violenze della manifestazione di Capo Frasca di ieri 23 novembre non lasciano spazio a nessun ragionamento. Manifestare è una cosa, delinquere deliberatamente è un’altra. Gruppi di delinquenti organizzati provenienti anche da altre parti d’Italia dimostra che la protesta contro i militari in Sardegna viene usata e strumentalizzata dai professionisti del casino e della violenza. I sardi ancora una volta usati a loro insaputa in questo caso con la partecipazione di gruppi provenienti dalla penisola già noti alle forze dell’ordine su casi precedenti legati alle manifestazioni dei NO TAV e NO MUOS. Scandalosa inoltre la partecipazione del senatore Cotti del Movimento 5 stelle su cui nemmeno Grillo prende le distanze e pertanto non mi rimane che pensare che questa sia ormai la linea ufficiale del movimento sul tema dei militari in Sardegna. Agghiaccianti invece le dichiarazioni degli organizzatori e di altri che a vario titolo parlano di modello economico alternativo e di una Sardegna diversa senza però dare nessuna ricetta praticabile e sensata. Per non parlare poi delle ragioni, spesso colorite, della protesta raccontata da questi “esponenti” che organizzano. Finzione e realtà. Il consenso di massa incardinato su informazioni non veritiere o deliberatamente falsate che però vengono considerate vere nonostante la loro dimostrabile infondatezza. Siamo ormai nell’era della post verità.

foto_550483_550x340

Nel cerchio rosso in alto a destra il sasso che colpirà il vice questore Rossi . ( le foto sono di Gianluigi Deidda – Unione Sarda )

foto_550484_550x340

Manifestanti tentano di aprire un varco sulla recinzione ( foto Gianluigi Deidda – Unione Sarda )

BUON APPETITO MATTEO.

Andrea Melis

“Ci è risucito un gioco di coppie fantastico – ha commentato Renzi – abbiamo messo insieme Berlusconi e Travaglio, si amavano a loro insaputa. D’Alema e Grillo: uno che sostiene la politica e uno l’antipolitica. Vendola e La Russa. È bellissimo. Siamo meglio di Maria De Filippi”.

No, è che sei un pericolo. E i pericoli ricompattano anche gli eserciti più scalcinati.

Anche chi scrisse la Costituzione contro i pericoli vide seduti accanto Comunisti e Democristiani, Socialisti e Repubblicani, Qualunquisti e Partiti D’Azione.

Restarono fuori solo le teste di cazzo. La Storia non ti suggerisce nulla in proposito?

Peggio per te.
Io voto No.
E tu perderai.
Perché i Renzi e quelli con lo spessore dei suoi accoliti forse potevano sperare al massimo di fare lo zerbino dove pulirsi i piedi fuori dall’assemblea dei padri Costituenti.

Un vecchio detto recita: se uno ti da della scimmia, togligli il saluto. Ma se in cento ti danno della scimmia, comprati un casco di banane.

Buon appetito, Matteo.

15055804_694873907346841_470262934038912120_n

L’ ARROGANZA E IL SERVILISMO

di Vindice Lecis

C’è da restare sgomenti dalla violenza verbale del presidente del consiglio Matteo Renzi. Per la sua arroganza, niente affatto diversa da quella del boss Vincenzo De Luca, un misto di guapperia e tracotanza da bassifondi del parastato, di furbizie da impunito che lo fanno somigliare al fotografo Corona quando è sobrio. Anche volendo non si può passare sotto silenzio la sua ultima invettiva, quel suo definire “accozzaglia” i sostenitori del No alla deforma costituzionale. Renzi ha da tempo superato il limite del confronto democratico. Tracima dai titoli dei giornali ben oltre la legittimità di una notizia (nel senso che qualsiasi cretinata o balla spaziale dica merita l’esposizione in pagina o sulla home di un sito), occupa le televisioni sistematicamente partecipando a interviste monologo compiacenti, ha collocato ovunque nei gangli dell’economia, dell’informazione, del credito i suoi uomini e donne fidati. Vogliono schiacciare la democrazia, renderla sterile e priva di partecipazione. Vogliono schiantare la Costituzione repubblicana e renderci servi, come quei poveracci che sono saliti sul palco di Cagliari l’altro giorno in vellutino e col cappello in mano.

sumiso